Un virus chiamato Prefetto
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Anna Pizzo
Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, la chiama “emergenza”. Si riferisce al Covid e afferma, mostrando i muscoli, che il virus “non fermerà gli sgomberi dei palazzi occupati”. Perché “la proprietà privata è sacra” e “ci sarà un’accelerazione, niente tempi lunghi ma senza trasferire il problema altrove: vanno cercate soluzioni alternative per chi ne ha bisogno”.
Il solito effetto annuncio che serve a fare la faccia feroce e, soprattutto, a far sì che gli occupanti “spontaneamente” vadano a cercarsi altrove un posto dove stare dal momento che, come è costretto a riconoscere lo stesso prefetto, le cosiddette “soluzioni alternative” non ci sono. Né per quelle occupazioni che, dice Piantedosi, verranno a breve sgomberate – Caravaggio, Tempesta e Villa Fiorita – né per tenere fede alla delibera di tre anni fa della giunta capitolina che prevede un inutile calendario di chiusura dei campi rom.
Quel che sta succedendo è esattamente ciò che è sempre successo ai rom, in tempi di “pace” come in quelli di “emergenza Covid”: essere minacciati per ottenere che la gran parte di loro carichino le loro povere cose e se ne vadano. Dove? Poco importa. Al campo di Castel Romano, ad esempio, delle oltre 1300 persone che lo abitavano, ne sono ora rimaste all’incirca 500 mentre prosegue l’esodo forzato verso situazioni ancora più fatiscenti e precarie. E’ questo il sistema individuato dalla sindaca Raggi per procedere al cosiddetto “superamento” dei campi. Con l’”aiutino” del prefetto che ora annuncia un imponente invio dell’esercito. E, ciliegina sulla torta, il sequestro del campo da parte della magistratura, per via della denuncia della Regione Lazio sulle condizioni igieniche e sanitarie estremamente deteriorate. Risultato: nessuno può entrare nel campo di Castel Romano, perché si configurerebbe un reato e, per quelli che ci abitano, condizioni di vita di tipo quasi carcerario.
Questo è solo un accenno della condizioni in cui versano i Rom ed è questa la ragione per la quale si sono riuniti a Roma, in un convegno a porte chiuse, rappresentanze di diverse comunità ospitate per due giorni in una parrocchia messa a disposizione dal vescovo e supportate dalla associazione Cittadinanza e Minoranze e dalla Cgil di Roma e del Lazio.
L’assemblea si è conclusa con un documento che è stato inviato alle istituzioni nazionali e locali, in cui, tra l’altro, si legge: “L’esplosione della pandemia ha mostrato in modo drammatico l’intollerabile livello di indifferenza con cui le nostre comunità sono state colpevolmente ignorate e sottoposte a rischi incalcolabili. dal punto di vista sanitario, igienico, sociale e economico, tanto da mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza. Solo grazie al nostro senso di responsabilità, al diffuso rispetto delle regole e alla coesione sociale che è un tratto forte del nostro stile di vita siamo riusciti a evitare conseguenze drammatiche, pagando però altissimi costi.
L’esplosione della pandemia ha mostrato in modo drammatico l’intollerabile livello di indifferenza con cui le nostre comunità sono state colpevolmente ignorate e sottoposte a rischi incalcolabili dal punto di vista sanitario, igienico, sociale e economico, tanto da mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza.
Solo grazie al nostro senso di responsabilità, al diffuso rispetto delle regole e alla coesione sociale che è un tratto forte del nostro stile di vita siamo riusciti a evitare conseguenze drammatiche, pagando però altissimi costi. Abbiamo dovuto tenere i nostri figli in abitazioni fatiscenti e anguste perché le scuole sono state chiuse senza che venisse prevista alcuna alternativa. Abbiamo dovuto smettere di svolgere le nostre attività lavorative tradizionali che erano praticamente le sole forme di sostentamento. Abbiamo dovuto perfino “temporaneamente” fare a meno del reddito di cittadinanza perché ce lo hanno sospeso. Abbiamo fatto richiesta del buono spesa, destinato proprio a chi versa in condizioni difficili, ma una burocrazia feroce lo ha negato a molti di noi. Abbiamo fatto appello alle istituzioni locali ma solo l’associazionismo diffuso ci ha ascoltati. Abbiamo chiesto di poter accedere al reddito di emergenza ma i lacci e lacciuoli burocratici hanno fortemente minacciato anche questa possibilità.
La pandemia non ci ha sterminati, ma le istituzioni rischiano di farlo in forme evidenti e in forme subdole, negandoci diritti e cercando di cancellare la nostra stessa esistenza. Perciò ora Diciamo Basta: al regime del terrore che viene attuato nei confronti di quanti vivono nei campi.Al pregiudizio e allo stigma che ci esclude dal lavoro e dalla vita sociale. A tutti coloro che ci negano il pieno diritto alla cittadinanza. Alla emarginazione dei nostri figli nelle scuole. Alla reclusione in cui ci avete costretti dentro ghetti ignobili e sporchi accusandoci di averli creati perché siamo “nomadi”. Al fatto che ci tollerate a stento ma a patto di rinunciare alla nostra identità. A chi ci giudica tutti ladri, nullafacenti e sporchi. A politiche del governo e delle istituzioni locali che ci condannano a essere un problema da risolvere con soluzioni inadeguate”.
Il documento, molto ampio, termina con un annuncio: “Non permetteremo che qualsiasi decisione riguardi Rom, Sinti e Caminanti venga presa senza la consultazione e l’approvazione nostra. Che i campi vengano chiusi senza che siano state individuate soluzioni abitative idonee che rispettino la dignità di ciascuno. Che il cosiddetto avvio di una nuova Strategia di inclusione venga deciso senza la consultazione e l’approvazione da parte di noi diretti interessati, sia a livello nazionale sia a livello europeo. Che il nostro futuro sia senza un lavoro dignitoso, fruttuoso e proficuo. Che personalità politiche o i media ci dipingano in modo ingiurioso e lesivo della nostra dignità”.