Una parola non basta
Da alcune settimane è nata su alcuni siti una ampia e interessante discussione sulla necessità o meno di preservare (e tutelare) le origini delle comunità rom. A dare il via è stato il presidete dell’Associazione 21 Luglio, Carlo Stasolla, sul suo blog ne Il Fatto Quotidiano.
Riteniamo utile pubblicare tale dibattito e sollecitare interventi e approfondimenti da chi, esperti o non, voglia portare il proprio contributo.
Carlo Stasolla
Nell’immaginario collettivo, quando si parla di comunità rom ci si riferisce ad un popolo omogeneo, detentore di una cultura e di una lingua, con alle spalle un’unica storia che ha inizio nel 1400 con l’arrivo in Italia delle prime carovane provenienti dall’Oriente.
In realtà, quando utilizziamo la parola “rom” in senso universale, ci troviamo a che fare con comunità di persone differenziate da elementi molto diversi tra loro. Ho provato a fare una catalogazione delle principali comunità ascrivibili all’universo rom presenti in Italia. Ci sono i rom italiani di antica immigrazione suddivisi in 5 gruppi (rom abruzzesi, rom celentani, rom basalisk, rom pugliesi, rom calabresi); i sinti all’interno dei quali ci sono 9 gruppi (sinti piemontesi, sinti lombardi, sinti mucini, sinti emiliani, sinti veneti, sinti marchigiani, sinti gàckane, sinti estrekhària, sinti kranària); i rom balcanici di recente immigrazione comprensivi di almeno 5 gruppi (rom harvati, rom kalderasha, rom xoraxanè, rom sikhanè, rom arlija/siptaira); i rom bulgari; i rom rumeni e i caminanti, originari di Noto. Ventidue gruppi – suddivisi in sottogruppi – diversi tra loro per dialetti, religioni, tradizioni.
Fondamentali sono poi le condizioni socio-abitative che vedono ai due estremi quelle famiglie di rom abruzzesi che ostentano ville con architettura chic e i poverissimi rom bulgari del ghetto di Borgo Mezzanone, in Puglia. In mezzo abbiamo rom che vivono in insediamenti formali e informali, in microaree, in centri di accoglienza, in terreni privati, in abitazioni in locazione e di proprietà, in case popolari e in quartieri monoetnici (come la Ciambra di Gioia Tauro), in immobili occupati (solo 1.500 nella città di Roma) in ville di lusso e in camper che si muovono stagionalmente. Dodici soluzioni abitative che, se incrociate con le condizioni dei 22 gruppi rom, ci presentano 107 condizioni socio-culturali differenti!
La maggioranza delle 107 realtà sono rappresentate da culture fuse e compenetrate con tipicità delle popolazioni locali, da cui sono scaturite mescolanze, contaminazioni, strategie di visibilità o di mimetizzazione.
Di fronte alle 107 realtà è possibile anche solo individuare tratti culturali o linguistici comuni? Esiste in Italia una cultura e una lingua rom che è possibile fissare, definire e codificare? Una domanda che alla base contiene una serie di questioni delicatissime di carattere identitario: chi può essere individuato con assoluta certezza come rom? Colui che parla il romanès? Chi ha mantenuto le tradizioni dei suoi avi o chi ha deciso di mimetizzarsi? E poi: il figlio di un matrimonio misto resta rom? E il nipote? Continuando all’estremo potremo rischiare di arrivare alle stesse risposte che già si era dato il dottor Mengele.
Se in Italia, come qualcuno legittimamente vorrebbe, venisse votata una legge per la tutela della minoranza rom ogni persona avrebbe il diritto di scegliere liberamente se essere o non essere trattata in quanto appartenente a tale minoranza. Ma in questo caso cosa accadrebbe se un cittadino, anche se non discendente da comunità rom, si auto dichiarasse rom al fine di godere dei “diritti speciali” previsti dalla legge? Chi potrebbe contestargli questa opzione? Su quali basi oggettive?
La questione, che periodicamente innesca veementi dibattiti, è complessa e non scontata e su di essa si gioca il futuro di molti. Non certo dei 28mila rom (quasi tutti stranieri), gli ipervisibili, quelli che con certezza classifichiamo come rom e che in Italia vivono segregati in misere baraccopoli. A loro, probabilmente, questo dibattito sull’identità e la cultura interessa poco o nulla.
Loro restano fuori da esso, fisicamente e idealmente, perché il loro ruolo è e sarà un altro: quello di stare dentro la cartolina utilizzata per rendere viva nella coscienza collettiva l’immagine dell’archetipo “rom” ma anche per giustificare il fiume di denaro che dall’Europa, in nome dell’”inclusione”, sfocia in incontrollati rivoli a cui in tanti si abbeverano.
Forse è giunto il momento di ribaltare l’intera questione e ripartire proprio da loro. Dalla loro condizione drammaticamente funzionale all’esistenza di inutili agenzie, di programmi europei, di strategie nazionali e di uffici comunali specificatamente dedicati alla “questione rom”. Che a tutto servono, meno che a dare risposte reali a quello 0,06% della nostra popolazione che vive in un container malmesso, dentro una baracca o sotto una tenda e che invoca solo un forte intervento sociale che aggredisca il loro problema che ha un nome preciso: povertà.