Per non avere paura della diversità
Nino Lisi
Il dibattito innescato da un articolo di Carlo Stasolla sulla questione Rom (vedi www.cittadinanzaeminoranze.it del 16/1/2018 “Una parola non basta”) fornisce molti spunti di riflessione importanti.
Stante la presenza in Italia di non meno di 4.500.000 persone di varie età, provenienti da altri paesi, portatrici di culture, tradizioni, stili di vita e comportamenti diversi tra loro e dai nostri, la scelta dell’approccio giusto per attivare processi di inclusione sociale è tema che travalica il caso dei Rom Sinti e Caminanti e suscita interrogativi molto impegnativi. Perché un dato è certo: a prescindere, in questa sede, da ogni giudizio sulle modalità e sulle conseguenze dei tentativi di controllare o, quanto meno, ostacolare i flussi migratori verso il nostro paese, il numero degli “stranieri”stabilmente residenti in Italia è destinato, di molto o di poco, ad aumentare.
L’ondata di xenofobia e razzismo che insieme a consistenti rigurgiti di fascismo sta inquinando il senso comune del paese segna l’urgenza di affrontare questo problema, ormai cruciale, sia fronteggiando e “curando” la paura della diversità, che si dice sia alla base di questa perniciosa deriva, sia decidendo sul tipo di società verso il quale vogliamo avviarci: puntare e come sulla prospettiva di un’evoluzione della società in senso multietnico e multiculturale oppure rifiutarla.
Non sembri sviante il collegamento tra avvenimenti di tale portata e la questione Rom Sinti e Caminanti. Non è un parlar d’altro. Infatti, se da un lato è possibile sperimentare su di un problema di piccole dimensioni la validità di un approccio da applicare poi su un fenomeno di maggiore portata, dall’altra la scelta dell’approccio metodologico è più agevole se lo si riferisce a fenomeni di grandi dimensioni essendone meno difficoltoso coglierne gli effetti che su fenomeni di piccola scala.
Gli approcci possibili, schematizzando al massimo e pur sapendo che non si tratta di una alternativa drastica, poiché nella realtà prevalgono le mezze tinte piuttosto che il bianco e il nero, sono essenzialmente due: quello universalistico e quello pluralistico.
Il primo è largamente adottato ed è possibile valutarne gli esiti. Il secondo assai meno.
Per porre in luce le differenze tra di essi penso sia necessario considerare due categorie concettuali, a mio avviso essenziali per analizzare i problemi che abbiamo di fronte.
Si tratta di due concetti che, per il maldestro uso che se ne è fatto da alcuni e quello strumentale fattone da altri, ispirano un’assoluta e preconcetta sfiducia: identità ed etnia. I contenuti originari di questi due termini sono stati tanto deformati e deturpati che il loro uso viene ormai evitato o perché se ne è perso il significato corretto o per il timore di equivoci.
Il primo termine, identità, lo si associa, quasi lo si scambia, con l’identitarismo che dell’identità propone una versione distorta, assolutizzata, scarna e immutabile: una sorta di fortilizio chiuso in se stesso, da difendere e da opporre agli altri; è esattamente l’opposto di ciò che l’ identità è. Formandosi e sviluppandosi mediante esperienze e relazioni le più diverse, l’identità è per sua natura aperta al contatto con l’esterno e alla contaminazione, tanto che si dice che essa sia sempre meticcia; ed è anche inevitabilmente poliedrica e mutevole, poiché più sono le esperienze e le relazioni in cui si imbatte più si arricchisce e muta, mantenendo inalterati alcuni tratti specifici in virtù dei quali riesce ad essere sempre se stessa pur modificandosi profondamente.
Custodire l’identità non vuol dire perciò preservarla da contaminazioni, perché se ne arresterebbe l’evoluzione sclerotizzandola. Sarebbe un esito deleterio, in quanto di una identità vitale non si può fare a meno: se per un qualsiasi evento si attenua la consapevolezza di sé, si smarrisce il senso della propria storia, risulta compromessa la capacità stessa di affrontare la vita. Ciò vale per le singole persone come per le collettività, qualunque ne sia la consistenza, comunque si configurino e con qualunque nome le si voglia chiamare.
Altrettanto importante è avere un’idea chiara di cosa si intende per etnia. Il Tommaseo non ne dà una definizione diretta, ma si può ricavarla da quella che riporta per Etnologia che definisce così: “Scienza delle stirpi, delle migrazioni dei popoli, che quindi comprende le loro origini, la loro storia, il diritto delle genti, etc”. La Treccani, a sua volta, dà questo significato: “In etnologia e antropologia, raggruppamento umano basato su caratteri culturali e linguistici. Spesso usato, nel linguaggio giornalistico, con il sign. di minoranza nazionale, gruppo etnico minoritario”. In tempi recenti alcuni antropologici hanno messo in evidenza che alla base della costituzione delle diverse etnie vi sono anche dei fattori politici.
In definitiva, sin dalla seconda metà dell’800 per etnia si intende un gruppo di esseri umani con tratti comuni esclusivamente di carattere culturale. Il concetto di identità è totalmente diverso quindi da quello di razza che si basa invece sulla comunanza solo di caratteri biologici. In funzione di questi, taluni (purtroppo non pochi) pretenderebbero di distinguere razze diverse all’interno della umanità, nonostante siano clamorosamente contraddetti dalle evidenze della Scienza moderna che ha svelato che tutti i raggruppamenti umani hanno un DNA coincidente per oltre il 99,9%. Se, quindi, è assolutamente giusto e, dal mio punto di vista, doveroso e necessario opporsi decisamente a chi vuol sostenere che vi siano diverse razze umane, è sbagliato non considerare che esistono diversità di carattere culturale, cioè sistemi di valori, tradizioni, lingue e stili di vita, dovute alle differenti storie, in base ai quali possono identificarsi diverse etnie.
Perché, allora, le resistenze e i sospetti cui è fatto segno questo termine?
Perché lo si associa alla peggiore variante dell’idea di clan, cioè di un raggruppamento molto chiuso, sempre in difesa, quando non in competizione più o meno permanente, con il mondo esterno, tenuto insieme da forti legami familiari in cui esistono posizioni di potere dominanti e gli interessi comuni soffocano quelli dei singoli. Per di più, etnia richiama per assonanza il termine etnicismo, cioè l’idea che si possa stabilire un ordine gerarchico tra le etnie e quindi che posa esserci supremazia di una su di un’altra e che la nazione debba avere un fondamento etnico ponendo l’etnicità a base delle organizzazioni politiche, apre la via al nazionalismo e a conflitti. Ovviamente l’etnicismo è un’aberrazione da respingere, ma non è un buon motivo per ripudiare il concetto di etnia.
Se per timore di fraintendimenti e del rischio di slittamenti semantici si rinunciasse all’utilizzo dei termini identità e etnia, ci si priverebbe di due categorie concettuali essenziali per l’analisi delle società, per comprenderne le dinamiche e approcciare con discernimento sia il problema dell’inclusione sociale di singole minoranze sia quello, ancora più impegnativo, del multiculturalismo. Nel primo caso, abdicando all’uso di quei concetti non distingueremmo il patrimonio culturale e linguistico e la stessa identità delle minoranze per cui rinunceremmo a salvaguardarli e l’inclusione avrebbe un unico inevitabile sbocco nell’assimilazione, cioè nella omologazione della minoranza all’interno della società maggioritaria con la scomparsa di ogni diversità. Sarebbe una perdita irreparabile per tutti e tutte.
L’effetto di questa rinuncia sarebbe addirittura paralizzante di fronte alla prospettiva del pluralismo culturale cioè di una convivenza pacifica e proficua di differenti culture (nel significato indicato più sopra) in uno stesso paese.
Non voglio dilungarmi, perché la digressione sarebbe eccessiva, su quanto la scomparsa delle diversità corrisponderebbe alle logiche della “globalizzazione” e alle esigenze del grande capitale che nell’attuare le proprie strategie di dominio trae gran vantaggio dall’ uniformità dei pensieri e dei comportamenti. Valga quanto al riguardo Ignacio Ramonet ha scritto sul “pensiero unico”.
Ciò posto, prendiamo in considerazione i due possibili approcci ai quali schematizzando – lo ripeto – è riconducibile il confronto: l’approccio universalistico e l’approccio pluralistico o multiculturale.
Il primo presuppone che vi siano dei “valori universali”, in particolare i “diritti”, che vanno estesi universalmente a tutte le popolazioni e nazioni e minoranze. Ora, se è innegabile che i diritti hanno costituito una grande conquista per i popoli che li hanno conseguiti, non si può ignorare che vi sono lingue nelle quali il termine diritto nemmeno esiste e che vi sono culture nelle quali l’dea di diritto è riferito non ai singoli individui, come da noi, ma a collettività. Ritenere che la nostra idea di diritti legati all’individuo sia superiore ad altre accezioni di questo termine e che le culture che ignorano tale concetto siano decisamente inferiori alla nostra vuol dire cadere proprio in quell’etnicismo di cui ci si preoccupa e che si vorrebbe combattere. Assumere che i valori frutto dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese abbiano tale valenza da potere andare bene a tutti e tutte e soppiantare quelli di altre culture è una forma di fondamentalismo. Lo chiamerei “fondamentalismo occidentale”. E’ una delle ricadute dell’“eurocentrismo” da cui direttamente deriva anche il colonialismo con il quale sono state sterminate le popolazioni autoctone in America e in Australia, devastati i paesi africani, si è entrati in conflitto con le culture asiatiche.
La logica falsamente messianica sottesa al colonialismo che – lo si ricordi – è parente stretto dell’universalismo, è chiaramente espressa in una canzoncina dell’epoca fascista, nella quale si prometteva alla “faccetta nera, bella abissina” che le avremmo dato “il nostro duce e il nostro re” ed è ben spiegata nel romanzo del 1955 di Robert C. Ruark “Something of Value”, da cui si trasse un film che in italiano si intitolò “Qualcosa che vale”. Vi si denunciavano le conseguenze del colonialismo, descrivendo la nascita in Kenia del movimento dei Mau Mau quale reazione, appunto, alla cancellazione delle tradizioni locali ad opera dei coloni bianchi che in cambio non avevano pero portato qualcosa che valesse. E’ la medesima logica sottesa all’assurda pretesa statunitense, cui si sono accodati supinamente non pochi Stati occidentali, di “esportare la democrazia” con la guerra. Le immani catastrofi causate perdurano ancora dopo qualche. Non meno deleteria è la pretesa di tutto l’Occidente di penetrare i mercati orientali con i propri prodotti, ignorando che merci, consumi, bisogni e valori sono legati come anelli di una catena, per cui l’introduzione di merci che esulano dalle tradizioni di un luogo prima o poi porta alla modifica della struttura di valori della popolazione. Un conto è se ciò avviene per l’evoluzione dei costumi, altro se avviene per l’invasione di prodotti attraverso strategie di marketing; in questo caso si possono suscitare reazioni parimenti violente e di segno contrario. Bruno Amoroso sosteneva che fra le cause della nascita del fondamentalismo islamico vi fosse anche quello che lui chiamava il fondamentalismo del mercato, cioè l’arrogante convincimento della superiorità degli stili di vita, dei modelli di consumo e dei modi di produzione dell’Occidente e che con la loro diffusione si espanda (si esporti?) la civiltà. Senza nascondere che sbandierare tale convincimento, serve a coprire un coacervo di imponenti interessi.
E’ evidente che ho inteso portare il ragionamento alle sue estreme conseguenze, ma credo sia innegabile la sua consequenzialità e che se dai frutti si riconoscono gli alberi, questi risultati mettono seriamente in discussione le premesse da cui muove l’approccio universalistico.
Dell’ approccio pluralistico si occupa Emanuela Ceva, cultrice di filosofia politica, in un saggio pubblicato nel volume collettaneo “Pluralismo e Libertà fondamentali” (Giuffré, Milano 2004),nel quale l’autrice si chiede come “affrontare le sfide di convivenza pacifica sollevate dal riconoscimento di una pluralità di valori e di concezioni del bene all’interno delle comunità politiche attuali”. A questa domanda elabora qualche cenno di risposta nell’ottica di una possibile “teoria della giustizia” che definisca “ciò che è giusto” in un contesto di pluralismo di valori, tramite “principi di giustizia”. Tratteggia due modelli di pluralismo: “normativo” e “descrittivo”. Il primo muove dalla considerazione della “natura plurale di ciò che vale” e ne fa discendere l’impossibilità di dare ai valori un ordine gerarchico per cui ritiene che sia <legittima e valida ogni posizione per differenti individui all’interno di diversi contesti, e deve perciò essere conservata>; il secondo riconosce la possibilità di un <disaccordo ragionevole tra diversi soggetti su ciò che vale …i diversi giudizi non sono errori da correggere o di cui sbarazzarsi , … ma sono in qualche modo essenziali conseguenze delle normali attività intellettuali di agenti ragionevoli>.
Senza dilungarmi sul pure essenziale concetto di ragionevolezza, concludo sottolineando che in ambedue modelli è escluso il prevalere di un sistema valoriale su di un altro.
Ciò a mio avviso non vuol dire che nell’affrontare nel nostro paese il problema dell’inclusione sociale si debba rinunziare a proporre i “nostri” valori tra cui anche i diritti. Ma si tratta appunto di proporli e non di imporli e, rifacendomi al concetto di identità, non posso che ribadire che la proposta può avvenire solo per “contaminazione”. Sono perciò d’accordo a metà con Luca Bravi (www.cittadinanzaeminoranze.it 16/1/2018 “tra universalismo ed etnicismo”) quando sostiene nel saggio Universalismo ed Etnicizzazione che < l’universalismo dei diritti (e dei doveri) rappresenta una fondamentale meta verso cui tendere, ma applicato senza compromessi nel presente può causare il permanere di problemi d’inclusione, di fatto acuendoli e lasciandoci senza un mete intermedie su cui incontrarci per predisporre una soluzione spendibile>. Sarei completamente d’accordo se ad Universalismo si sostituisse “diffusione” dei valori e al termine compromesso “mediazione”; mediazione tra <disaccordi ragionevoli>. E’ evidente che non si tratti di semplici sfumature linguistiche ma che alla mediazione si debba arrivare per mezzo di <normali attività intellettuali di agenti ragionevoli>. La ragionevolezza dunque come connotazione basilare dei processi di inclusione sociale.
E veniamo al caso dei Rom Sinti e Caminanti.
La loro inclusione, dicevo all’inizio, potrebbe essere il banco di prova della volontà e della capacità nostre di affrontare il problema dell’inclusione sociale della molteplicità di minoranze già presenti nel paese.
Ciò non vuol dire ridurre la questione RSC ad un caso come tanti, negandone la specificità;ma al contrario vuol dire imparare dal caso dei RSC che ogni caso ha la propria specificità e l’inclusione di ogni minoranza non può partire che dal riconoscimento della sua specificità, da rispettare e tutelare, da contaminare con i nostri valori e da cui farsi contaminare.
Ma quali sono le specificità dei rom Sinti e Caminanti? Qui è necessario affrontare un tema che è stato già sollevato anche nell’ambito del dibattito citato all’inizio. E’ evidente che la <questione Rom> è anche una questione sociale e che alcuni comportamenti e stili di vita sono causati dalla povertà, degradata in non pochi casi in miseria, esattamente come avviene per i sottoproletariati, le plebi o il “popolo minuto”, secondo le denominazioni con le quali a seconda dei contesti vengono individuate le fasce sociali emarginate. Ma non è solo questo! Ridurla a questa unica dimensione significa ignorare che in ballo ci sono una lingua, una cultura, una storia, in sintesi una identità che in un processo di inclusione va salvaguardata perché possa confrontarsi, interagire e contaminarsi con quella della società maggioritaria e a sua volta contaminarla.
Hanno perciò assolutamente ragione, a mio avviso, Dijana Pavlovic, Santino Spinelli, Graziano Halilovic, Giorgio Bezzecchi, Carlo Berini, Paolo Cagna Ninchi, Manuel Innocenti, e Radames Gabrielli, i quali nell’articolo intitolato “DE-ETNICIZZARE PER CANCELLARE L’IDENTITA’?” affermano di essere <preoccupati della direzione che sta assumendo il dibattito pubblico sulla “questione rom”> tendendo a ridurla come determinata unicamente dalla condizione di povertà, assorbendola quindi nella <più generale condizione di marginalità sociale delle diverse fasce di popolazione> per cui <tra un homeless, un immigrato, un italiano in miseria e un rom o un sinto non c’è differenza. …. Quindi la “questione rom” diventa solo una questione sociale, non è più – e non va più affrontata – come la questione di una minoranza storico-linguistica messa ai margini sociali dal suo mancato riconoscimento>.
A mio avviso, se si vuole correttamente attivare un processo di inclusione bisogna riuscire a distinguere nei comportamenti e stili di vita presenti nel “campi”, ciò che fa parte del patrimonio culturale e sono tratti identitari da tutelare e quanto deriva dalle condizioni materiali in cui, rinchius@ e ghettizzat@ da decenni, sono costrett@ a vivere. Sia ben chiaro a questo proposito che semmai a qualcuno fosse venuto in mente un tempo che i “campi nomadi” (successivamente rinominati ipocritamente e con scarso senso del ridicolo “villaggi della solidarietà”) potessero essere stazioni di sosta per carovane in transito, essi sono stati in realtà concepiti, organizzati e gestiti unicamente come luoghi di segregazione e isolamento, per difenderci dalla “loro” diversità, per paura della loro diversità senza neppure conoscerla.
La distinzione tra i tratti identitari dell’etnia e ciò che è conseguenza delle condizioni materiali in cui vivono può operarsi, oltre che richiamandosi a studi sociologici e antropologici esistenti, mettendosi in ascolto, famiglia per famiglia, delle loro storie, delle loro esigenze ed aspettative senza prevenzioni e riconoscendo le singole famiglie come soggetti di diritti, protagoniste della loro inclusione. Il processo di contaminazione dei valori si attiva dunque in questo caso attribuendo loro i diritti di cittadinanza di cui sono privi e costruendo con loro un modello di inclusione che, lungi dall’essere quello dell’assimilazione, nasca dall’interazione tra i loro ed i nostri valori.
Occorre dunque un approccio “ragionevole”, cioè flessibile e rispettoso delle differenze, che non parta da assiomi preconcetti, ma muova senza paura delle diversità alla ricerca delle soluzione più rispondenti, sapendo che l’eguaglianza non è uniformità e che non si è liberi se non si può essere diversi.
So bene che il cammino verso una società multiculturale non è semplice; so bene che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ma per non eludere l’orizzonte che ci sta di fronte ed evitare l’imbarbarimento delle società non ci resta che imparare a nuotare.