Camping River tra ricatti e indifferenza

I rom del “villaggio attrezzato” Camping River, nella periferia est della Capitale, si trovano da mesi in una situazione molto anomala, simile per certi versi ad un assedio: la degenerazione delle condizioni di vita appare direttamente proporzionale a un’insolita attenzione da parte delle forze dell’ordine.

La comunità in questione ha avuto fin dalla genesi del campo nel 2005 diverse particolarità rispetto alla condizione media dei rom nella Capitale. Anzitutto, si tratta di un insediamento in cui per anni è stato difficile accedere e sul quale era complesso reperire informazioni, che nasce col trasferimento di rom macedoni e kosovari dal Casilino 900.

Gestito dalla cooperativa sociale Isola Verde con un sistema particolarmente rigido per quanto riguarda gli ingressi, il villaggio fu visitato dall’on.Giovanna Martelli circa un anno fa: fu proibito di entrare ai suoi collaboratori e anche di effettuare riprese o fotografie all’interno, nonostante come parlamentare avesse pieno diritto a svolgere una visita ispettiva senza restrizioni di alcun tipo. Interpellando il Comune a proposito della “procedura” invocata dalla cooperativa per giustificare simili limitazioni alle prerogative di una deputata, non siamo riusciti a trovare alcuna conferma né smentita dell’esistenza stessa di un simile regime “a statuto speciale” per il Camping River.

La situazione è rimasta immutata fino a quando l’ente, che è proprietario degli impianti, è stato incaricato della gestione, che dal canto suo sembrava discostarsi molto dalla prassi che eravamo soliti riscontrare nei campi, non solo per le regole in merito ai visitatori. La comunità presentava infatti da un lato un tasso di scolarizzazione nettamente superiore alla media (secondo alcune stime, circa il 90% dei bambini in età scolare; secondo altre meno ma in ogni caso sopra la media) e standard più elevati sia sotto il profilo igienico-sanitario che dal punto di vista della sicurezza; dall’altro non sono mancate le polemiche riguardanti i progetti di avviamento al lavoro e di accesso alle case, al servizio di trasporto gratuito, al sovraffollamento e alla vicinanza dell’area con la fascia protetta paesaggistica. Con l’arrivo della giunta Raggi, il contratto all’ente gestore non è stato rinnovato.

Di lì la vita dei rom ha iniziato a cambiare in peggio, dapprima col deteriorarsi delle condizioni complessive, poi con la minaccia di sgombero e l’inclusione nello stesso “piano nomadi”, infine con le ultime vicissitudini. Nel corso dei mesi, infatti, si sono visti privati ora dell’acqua, ora della corrente elettrica; si sono scontrati con l’inquinamento e con i continui interventi delle forze dell’ordine: queste incursioni inusuali nel numero e nelle modalità, a fronte della varietà dei focolai di disagio sociale nella Capitale, si sono risolte in un sequestro di dubbia legittimità dei veicoli nell’area privata e con un presidio di fatto H24 della polizia municipale.

Recentemente i vigili si sono presentati per effettuare uno sgombero, che appariva privo di congruo preavviso e di valida alternativa d’alloggio, riguardante non l’intero insediamento, ma solo alcuni moduli abitativi. Tale sgombero però non è stato effettuato, in quanto l’ente proprietario del terreno, la società Seges, si è impegnata a ospitare le famiglie per il tempo massimo concesso dalla normativa ad uso turistico: essendo un camping, quindi, i rom che avrebbero dovuto subire lo “sfratto” (sebbene non si possa chiamare così, non essendoci stata alcuna procedura) sono stati accolti per altri trenta giorni.

Ma le condizioni globali non sono affatto migliorate, anzi: per i rom è diventato difficile persino andare a prendere l’acqua, che nel campo non è potabile in seguito allo scadere del contratto con la coop proprietaria degli impianti di potabilizzazione. I residenti hanno infatti subito il divieto di parcheggiare sia all’interno dell’area privata sia in quella limitrofa (è sempre più difficile individuare i margini normativi di simili provvedimenti): non potendo quindi entrare e uscire sui propri mezzi per andare a lavorare o rifornirsi dei beni di prima necessità, sono costretti ad armarsi di taniche, carrelli e carrozzine e a camminare per 3,5 km fino a Prima Porta, per potersi almeno idratare.

Tutto questo accade in un quartiere in cui le proteste contro la presenza del campo sono andate aumentando di pari passo col degrado in cui verte l’insediamento. Si sono svolte riunioni municipali e piccole manifestazioni. Il contesto più ampio della Capitale vede in ogni caso i campi nomadi completamente abbandonati a se stessi, nell’assenza di un progetto che intervenga concretamente sia sulla tutela dei rom sia sul minimo sindacale di decoro urbano.

L’unico progetto è il “piano nomadi”, la cui attuazione però, ammesso sia mai veramente iniziata, non ha inciso minimamente su un contesto ambientale sempre più preoccupante. A Castel Romano esondano le fogne, i liquami invadono il campo che sorge a ridosso della riserva naturale e nel corso dell’estate l’assenza o l’inquinamento dell’acqua hanno provocato l’insorgere delle epidemie, come è avvenuto anche in altri campi a cominciare da quello in via di Salone.

La Barbuta, a Ciampino, è tuttora piagato dagli incendi: nessuno è incaricato di gestire materialmente gli insediamenti, che diventano meri nuclei di disagio sociale in cui i roghi tossici si mescolano alla microcriminalità, che a sua volta si profila sempre più come mezzo basilare di sussistenza.

La querelle di Camping River comincia proprio come un racconto di Charles Dickens: nella gelida Vigilia di Natale del 2016, giorno in cui, a causa dei rilievi di ANAC, scatta la sospensione in autotutela del bando per la realizzazione di un nuovo campo nomadi nello stesso territorio (XV municipio), destinato ad accogliere le famiglie residenti nel River. La procedura di gara per il reperimento dell’area attrezzata è però confermata il 7 marzo 2017: il 31 marzo, l’unico soggetto che ha partecipato alla gara è la stessa Isola Verde.

Subito il bando torna all’attenzione di ANAC: sulla stampa, l’amministrazione è accusata di aver emesso un bando ad personam, fatto su misura per la cooperativa; ed è in seguito a tali accuse che la giunta a 5 Stelle respinge la domanda di Isola Verde, senza però procedere ad emanare un nuovo appalto. Ne consegue che il campo, dallo status di “regolare”, diventa abusivo: lo sgombero è annunciato per il 30 giugno e prorogato fino al 30 settembre, ovvero allo scadere della convenzione della coop con il Comune. Sorgono nuove polemiche: dove andranno le famiglie?

Anche i rom protestano e chiedono di poter restare nel luogo in cui crescono i figli, li mandano a scuola, insomma dove si sono inseriti all’interno del tessuto sociale. L’amministrazione, dal canto suo, ha inserito Camping River nel “piano nomadi” con deliberazione 146 del 28 giugno, ma non ha alcuna soluzione concreta per le famiglie; tanto che, con ordinanza 167 del 23 ottobre, la sindaca ordina il ripristino dell’impianto idrico a carico della cooperativa con la quale il contratto è scaduto! Ed è da qui in poi che iniziano a verificarsi gli eventi che abbiamo riassunto con il nome di “assedio”.

Ufficialmente, le famiglie sarebbero beneficiarie di contributi per uscire dal campo e andare a vivere in condizioni migliori. In realtà, per capire come funzionano i contributi è sufficiente citare la vicenda emblematica accaduta a Giorgio Halilovic, abitante di Camping River il quale in un giorno apparentemente qualunque viene fermato dalle forze dell’ordine con l’accusa di “trasporto illecito di rifiuti”. Ad Halilovic giunge quindi una lettera dal Comune: poiché sul suo furgone trasportava rottami raccolti per rivenderli, sono revocate le misure di sostegno non solo a lui, ma a tutta la sua famiglia (sic); l’uomo sostiene inoltre di non aver mai ricevuto alcun contributo, prima di quella lettera.

Da un simile, kafkiano scenario si evince come l’efficacia delle politiche adottate per il River vada a sommarsi alle polemiche su quelle del “piano nomadi” in sé. Nel corso dei mesi corre voce che ai rom sia stato proposto più volte di lasciare il terreno non per avviare un progetto di vita con l’aiuto del Comune, bensì per trasferirsi in altri campi; ma nonostante le pressioni o i presunti incentivi, e con buona pace tanto delle proteste dei residenti del quartiere che del peggioramento delle condizioni di vita, i rom non hanno nessuna intenzione di andarsene senza un’alternativa concreta.

Le ragioni delle famiglie sono piuttosto comprensibili. Al di là del bisogno di continuità didattica, lavorativa e più in generale del rapporto con il territorio, vi è il semplice dato di un’assenza di soluzioni soddisfacenti. Camping River è sì in condizioni critiche, ma è preferibile ad altri campi per molti motivi, a cominciare dal fatto che è meno isolato rispetto ad altri: vivere in luoghi come Castel Romano, in mezzo a una foresta a oltre 30 km dal centro abitato, significa rischiare la vita per un’emergenza qualsiasi. In ogni caso, la motivazione principale è la più ovvia: non hanno un altro posto dove andare.

Una famiglia non lascia un tetto sulla testa per fare un salto nel vuoto: piuttosto, è disposta a combattere e a sopportare dove sa di poter offrire un letto e una scolarizzazione ai propri figli, per garantire loro almeno la speranza di un futuro migliore. Se i moventi dei rom sono chiari, quelli del Comune sono più difficili da decifrare. A giudicare dalle polemiche intorno alla gara di affidamento, si sarebbe detto che la Giunta avesse tutte le intenzioni di lasciare che fosse la coop a occuparsi delle famiglie, prima delle polemiche e quindi dei problemi d’immagine.

Forse è in questi ultimi che bisogna rintracciare anche le ragioni della scelta di cancellare lo sgombero, la scorsa estate; ma perché allora “l’assedio”? Tra il mancato sgombero e il progressivo verificarsi delle condizioni attuali, c’è il “piano nomadi”. Bisogna qui ricordare che la Giunta, al momento del suo insediamento, aveva soltanto due alternative per quanto concerne i campi: mantenerli finanziando il circuito assistenziale o superarli mediante l’implementazione della Strategia nazionale d’inclusione, il documento ratificato dall’UE a marzo del 2012 e tuttora in vigore fino al 2020.

Nel primo caso vi sarebbe stato ampio dispendio di denaro comunale, ma la situazione sarebbe rimasta “sotto controllo”; nel secondo ci sarebbe voluto il coraggio di sfidare le logiche attuali e avviare un percorso fondato su dialogo, buona volontà, collegialità, trasparenza, in virtù del quale Roma avrebbe avuto accesso ai fondi strutturali europei. Ed è qui che la Giunta pentastellata tenta il “colpaccio”: superare sì i campi, ma senza la Strategia, impiegando comunque fondi europei – sebbene non gli stessi fondi.

Un’idea che aveva accarezzato anche il commissario Tronca, che consisteva nell’utilizzare il denaro del PON Città Metropolitane per avviare il superamento anzitutto del campo La Barbuta, il quale non a caso è l’unico mega-campo ad essere inserito originariamente nel “piano nomadi” accanto al più piccolo villaggio de La Monachina. Dunque l’esigenza della propaganda da un lato e di trovare una soluzione intermedia dall’altro sembrano aver spinto l’amministrazione a partorire un progetto la cui fattibilità desta perplessità fin dalla sua prima presentazione: il Comune si ritrova quindi con un piano “virtuale”, un sacco di soldi europei che non sa come impiegare perché il progetto fa acqua da tutte le parti, e il denaro comunale che non può toccare dopo la propaganda fatta in merito al superamento dei campi attraverso l’uso dei fondi europei.

A complicare ulteriormente la situazione, si verificano degli strani mutamenti che si possono interpretare solo come frutto di questioni interne, a cominciare dall’ormai antico silenzio dell’assessore Laura Baldassarre, la quale a suo tempo invece esternava ed era regolarmente interpellata in merito alla questione. Non si sa cosa sia accaduto: fatto sta che tutto finisce sotto l’egida dell’ufficio rom com’era prima del “governo di cambiamento” della Capitale, che a quanto pare non ha cambiato proprio nulla.

In poche parole, è scacco matto: se la Giunta spende un solo centesimo di soldi pubblici per i campi nomadi, rischia il linciaggio delle opposizioni e della stampa; ma ha vincolato il denaro dei fondi europei a un piano nomadi astratto, perciò da un lato non può utilizzarli per un progetto diverso e dall’altro l’uso per questo progetto appare puramente teoretico (chiunque può capire che non è certo con i bonus-affitto che saranno superati i campi). E così, al Comune non resta che sperare che i rom del River se ne vadano da soli, pur non avendo un altro posto in cui mandarli. Ma a questo si oppone evidentemente la società proprietaria: e benché sarebbe cinico escludere ogni movente di solidarietà nella scelta di ospitare gratuitamente i nuclei familiari sul proprio terreno, è piuttosto probabile che anche la società abbia le sue buone ragioni nel sostenere la volontà delle famiglie di restare dove si trovano.

Bisogna anzitutto considerare che la cooperativa ha subito un grosso danno economico. Il Camping River rientrava in quell’indotto pari in media a circa quindici milioni di euro l’anno con cui venivano finanziati i villaggi attrezzati fino all’epoca della giunta Marino, ovvero fino allo scandalo scoppiato con la operazione “Mondo di mezzo”, dal quale il River però non è stato toccato e ha continuato ad essere gestito da Isola Verde fino allo scorso anno, quando l’improvvisa porta in faccia del Comune di Roma causa alla coop un colpo non indifferente.

L’ente gestore perde un introito che nel 2013, secondo le stime diffuse, era pari a 1.197.600 euro; nel 2008 alcune stime parlavano di un milione e 452mila euro l’anno. D’altro canto, le spese di manutenzione ordinaria si aggiravano intorno a 5000 euro al mese e la coop afferma di vantare col Comune un credito di circa 200.000 euro. Fra gennaio e luglio 2017 la cooperativa Isola Verde subisce inoltre l’esclusione da un’altra gara, relativa al centro d’accoglienza Casale San Nicola, e la chiusura dell’omologo in via Tenuta Piccirilli: i migranti saranno trasferiti in una struttura secondaria del Camping River dopo una settimana circa dall’apertura del centro.

Per quanto concerne l’ente proprietario, occorre rilevare un possibile equivoco: il Camping River risultava essere di proprietà del fondatore di Isola Verde, Roberto Fagiolari, già presidente della cooperativa Chesebà cui l’allora sindaco Veltroni aveva affidato, peraltro, l’appalto per i lavori infrastrutturali presso il campo di Salone; Fagiolari è venuto a mancare proprio nel periodo che segna l’inizio delle tribolazioni per Isola Verde, nel gennaio dello scorso anno.

Al di là del fatto che formalmente Isola Verde ha un contratto d’affitto con i proprietari dell’area valido fino al 2020, è evidente che l’ente proprietario e l’ente gestore non sono affatto due entità avulse, ma che in buona misura coincidono, o quantomeno coincidevano fin quando il presidente dell’ente gestore corrispondeva all’ente proprietario. Fatto sta che per quest’ultimo il danno è forse perfino maggiore. Il terreno adibito a “villaggio della solidarietà” è un luogo che ha concretamente ospitato circa 80 famiglie in difficoltà per più di dieci anni.

Ne consegue che per ristrutturarlo e adibirlo a un uso diverso, com’è ad esempio quello turistico che sarebbe la sua collocazione ideale, ci vorrebbero delle somme piuttosto cospicue. Il proprietario s’è ritrovato con tutti gli oneri senza gli onori: l’amministrazione ha tagliato i fondi all’ente gestore e ha lasciato i rom là dove si trovavano. Perciò appare piuttosto comprensibile che la società vorrebbe giungere ad un accordo con l’amministrazione, che non può certo risolversi con gli sgomberi alla ‘ndo cojo cojo, come si dice a Roma, operati dalla municipale: le “sfoltite” con cui si alleggerisce il campo buttando fuori ora una famiglia ora l’altra possono servire forse a gettar fumo negli occhi dell’opinione pubblica e a mostrare un poco credibile “pugno di ferro” agli abitanti del quartiere, ma di certo non convinceranno la Seges che l’amministrazione intenda realmente risolvere la situazione.

Questa, per tagliare l’inaccettabile spesa pubblica destinata ai campi, ha ridotto al minimo i servizi o li ha eliminati. I soldi del PON Metro destinati al piano sono 3.800.000 euro, una cifra pazzesca se si considera che prevede il superamento di soli due insediamenti prevalentemente per mezzo dei contributi di 10.000 euro a famiglia di cui sopra, che pare perlopiù non siano stati affatto profusi; ma quand’anche fosse, quale garanzia si offre a un affittuario se gli si mostra un buono-affitto comunale della durata di due anni, un beneficio che in qualunque momento potrebbe decadere in quanto è il Comune stesso a riservarsi d’interromperne l’erogazione qualora non veda rispettati i termini di utilizzo?

D’altra parte, l’ampio quadro di finanziamento europeo previsto dalla Strategia è inaccessibile a Roma Capitale, perché per accedervi avrebbe dovuto rispettare gli schemi di governance previsti dal documento; cosa che non ha fatto.

Quindi la soluzione non poteva che essere una: tagliare i servizi. Ma è assolutamente ovvio che non è possibile implementare l’inclusione di una minoranza ostacolandone i ponti che la collegano al tessuto sociale: casa, lavoro, scuola, sanità, ovvero i quattro pilastri su cui è basata la Strategia. Il passaggio da un sistema assistenziale a uno più propriamente inclusivo non può avvenire troncando dall’oggi al domani le forme basilari di assistenza, o la situazione, anziché migliorare, peggiorerà, proprio come sta avvenendo a Camping River.

Il modo in cui l’amministrazione sta tagliando i beni di prima necessità e mantenendo un presidio fisso di fatto a spese dei contribuenti può solo inasprire ulteriormente le condizioni in cui vivono le famiglie, aumentando quindi inevitabilmente il degrado nel quartiere e le conseguenti proteste dei cittadini. Dal canto suo, la società Seges vorrà tutelare i propri interessi: sia pure. Ma al tempo stesso è anche l’unico soggetto che sta in qualche modo concretamente tutelando le famiglie, perché è innegabile che i rom finiti nel mirino del Comune sarebbero stati buttati in mezzo a una strada con i loro bambini; e queste persone avrebbero portato il loro disagio altrove, se non nella medesima area, accampandosi non lontano dal villaggio attrezzato come spesso accade in questi casi.

In una situazione formale che vede il terreno di proprietà della Seges, gli impianti di Isola Verde e i moduli abitativi del Comune, è in ogni caso chiaro che qualsiasi mezzo si voglia intraprendere che prescinda da un dialogo costruttivo si rivelerà fallimentare. A livello propagandistico, si narra ancora dei contributi per l’affitto che saranno elargiti alle famiglie aventi diritto affinché possano uscire dal campo per andare a vivere in condizioni migliori.

È trascorso un anno dal varo del piano nomadi e siamo ancora fermi al punto di partenza; è evidente che la Giunta a parole annuncia un progetto e nei fatti intraprende altre azioni che, al di là di ogni discussione sulla loro legittimità e validità, rivelano che un progetto vero e proprio attualmente non c’è affatto, a meno di voler credere che il Comune intenda davvero superare i campi nomadi lasciando anziani, bambini e disabili senz’acqua per mesi con una mano, e promettendo contributi con l’altra.

Abbiamo assistito alle esternazioni più surreali, non ultima la proposta di un “mental coach” per incentivare i rom a lasciare i campi (perché non reclutare direttamente Giucas Casella?); pare però che gli unici incentivi per i rom ad abbandonare i loro container si siano concretizzati, sommando le criticità dei vari insediamenti, nella scabbia, nella esondazione delle fognature, nell’impossibilità materiale di portare i figli a scuola o in ospedale, nell’assenza di acqua potabile, nella tossicità del suolo, nei ratti e nella violazione di diritti basilari a cominciare dagli sgomberi con meno di 48 ore di preavviso…
di Camillo Maffia e Gianni Carbotti
Agenzia Radicale

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