Siamo lo stesso coinvolti

Anna Pizzo

Perdonate se, di fronte a quello che sta accadendo, non abbiamo aggiornato a sufficienza il nostro sito. La verità è che lo stomaco non ci ha retto. Che non ce l’abbiamo fatta a riferire (come fanno la maggior parte di giornali e televisioni) giorno dopo giorno le disgustose affermazioni di Salvini, gli indecenti silenzi dei 5 Stelle, i sottili distinguo del Pd. Non abbiamo potuto unirci all’orgia di “chilasparapiùgrossa” non solo perché ci viene da vomitare ma anche perché (e soprattutto) chi crede che annunciare censimenti su base etnica, affermare che i rom “italiani purtroppo dobbiamo tenerceli” o che i migranti che vagano dosperati sul mare sono “carne umana” è solo propaganda, sbaglia di grosso. Perché in realtà, al di là degli effetti concreti sulle persone perseguitate, quel linguaggio scava nel profondo e lacera il tessuto sociale. Annichilisce e toglie la parola e francamente non ce la sentiamo di contribuire a questo massacro culturale. So che non abbiamo né le energie né la vitalità per compiere gesti che un tempo avremmo considerato ovvi, ma questo non toglie che tutti coloro che non vogliono arrendersi al vento che tira né rassegnarsi in attesa che “passi la nottata” sono chiamati a reagire. Magari solo con un piccolo gesto, un segno nero al braccio o alla finestra in segno di lutto per la morte della democrazia e della civile convivenza. Non sappiamo quale possa essere l’elemento che, dopo lo tsunami, possa far rialzare la testa e mostrare l’orgoglio della dignità. Un cantante ma anche una specie di filosofo di qualche decennio fa diceva: “Anche se vi credete assolti, siete comunque coinvolti”.
Allora, questa premessa per fare una promessa e per raccontare una storia triste. La promessa è che riprenderemo a informare chi ci segue nel modo più puntuale possibile, magari raccontando quel poco di cose positive che vengono dai nostri mondi. La storia triste è quella di Camping River dove ieri (giorno decretato dalla sindaca Raggi per la chiusura definitiva) siamo andati.
Eccola.

Per arrivare al Camping River bisogna prendere la via Tiberina, nord di Roma, e trovare la stradicciola che va verso il fiume, a metà della quale due macchine della Polizia locale sono messe di traverso, una specie di posto di blocco, controllo dei documenti, altri vigili chiederanno poi se, da giornalista, abbiamo il permesso per entrare nel campo. Quale permesso? Quando siamo andati, in passato nel campo rom, non abbiamo mai chiesto permessi. Ma il 30 giugno 2018 è un’altra storia. Perché proprio il 30 giugno è scaduto l’ultimatum del Comune di Roma.
Il graduato telefona al comandante, che chiede al suo superiore eccetera. Alla fine, è consentito entrare ma non nell'”area cantiere”. Il “cantiere” è la zona del camping in cui le ruspe stanno demolendo (ma oggi è sabato, non si demolisce ancora fino a lunedì) i container di proprietà del comune, gli altri sono del padrone del camping. I container ancora non demoliti sono ancora lì, vandalizzati, sbirciando dentro si vedono cucine, tavoli, letti buttati all’aria, tutto quel che chi ci abitava non è riuscito a portar via a braccia.
Camping River ha una storia complicata, cominciata nel 2005, quando il Comune lo chiamò “villaggio attrezzato” e decise di “trasferirci” i rom macedoni e kosovari sgomberati da Casilino 900. Per quei tempi (ma oggi è un ricordo lontano) si trattava di un’isola felice: il 90 per cento dei bambini andavano a scuola e buoni standard sotto il profilo igienico-sanitario. Ma negli ultimi anni tutto è precipitato perché Camping River doveva essere il primo, del cosiddetto “piano nomadi” messo a punto dalla giunta Raggi, a chiudere. Così, nel corso dei mesi, agli abitanti hanno tagliato l’acqua, poi la corrente elettrica poi hanno smesso di ritirare i rifiuti. Infine, e arriviamo a questi ultimi dieci giorni, hanno sbaraccato i container. Ufficialmente, le famiglie potrebbero avere i contributi per andare a vivere in condizioni migliori. In realtà, per capire come funziona parliamo di Giorgio Halilovic, abitante di Camping River, che un giorno viene fermato dai vigili e, poiché sul suo furgone trasportava rottami raccolti per rivenderli, revocano le misure di sostegno non solo a lui, ma a tutta la sua famiglia. Tanto, anche a chi non è stato sanzionato, le cose non sono andate maglio: chi volete che dia una casa in affitto a una famiglia rom, anche se a garantire (per un periodo relativo di tempo) è il Comune?

Per molti anni Camping Rvier è stato un luogo del tutto regolare, finché la signora Raggi non ha deciso di far valere le sue regole (andava molto fiera che nel “contratto di governo” fosse stato inserito il suo “piano rom”) e rincorrere il ciclone Salvini.
Prendiamo la giovane signora Halilovic, che nonostante il nome bosniaco, è nata in Italia, è cittadina quanto la signora Raggi ed è residente a Roma. I suoi fuggirono dalla guerra jugoslava quando quei profughi erano popolari e benvenuti. Oggi ha due figlie biondissime di due e tre anni. Che dormono nella casipola di mattoni di una sua parente e lei dorme all’aperto. E chiede: “Ma Salvini ha figli? Se li avesse non farebbe queste cose”. La signora Halilovic, non sa che Salvini, “da padre”, ha deciso di annegare i bambini nel Mediterraneo, come i tre neonati morti l’altro ieri.
Il dirimpettaio, si fa per dire, della signora è kosovaro, altri profughi che hanno avuto una certa fortuna, al tempo in cui D’Alema bombardava Belgrado. Infatti ha lo status di rifugiato. E quattro figli, che non sa dove far dormire dopo l’abbattimento del container, tutti si accucciano all’aperto, tanto fa caldo, solo che l’altra notte ha piovuto e i bimbi piangevano, racconta.
Il suo amico è bosniaco e ha un passaporto da apolide rilasciato dalla Repubblica italiana. Ha anche lui il problema dei suoi figli soprattutto perché o accetta i diecimila euro che il comune promette (solo a quelli in regola, beninteso, i cinque stelle ci tengono, alla legalità, i “clandestini” sono condannati a essere sgomberati a vita), soldi per affittare una casa, e lui commenta “chi me la dà una casa?, e se la trovo, come la pago dopo un anno, se non trovo lavoro?”.
Se non c’è la casa, c’è l'”alternativa”. L’alternativa è che lui va in un centro di accoglienza, chiamiamolo così, “fuori Roma” mentre la moglie e i quattro bambini vanno in un analogo centro sulla Casilina. Ma non era Trump a separare a forza le famiglie? Gli esperti dicono: lo fanno sempre, ma che sia una abitudine non rende questa pratica meno orrenda. Il bosniaco dice: “Sono stato sulla Casilina, mi hanno dato un permesso per andare a vedere, la stanza è abbastanza grande per tutti perché devono portar via il padre ai bambini e suo marito a mia moglie?”.
Ecco, immaginate, per sottrarvi all’abitudine di veder trattare così i rom, (e a quelli di Camping River l’allora sindaco Alemanno promise case popolari entro sette mesi), che si stia parlando di ebrei fuggiti alla persecuzione, o che si tratti degli abruzzesi inurbati negli anni cinquanta e che avevano costruito le baraccopoli di cui scrisse Pier Paolo Pasolini. Diceva Luigi Pintor che il segreto sta nel non abituarsi, nel mantenere curiosità e capacità di indignarsi, invece che votare la signora Raggi, come molta gente di sinistra ha fatto a suo tempo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *