Quella marcia è anche nostra
Brevi considerazioni a partire dalla marcia di migliaia di migranti che si sono mossi oltre un mese fa dall’Honduras. Molti di loro sono ora arrivati alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, molti altri, decine di migliaia, stanno arrivando. tutti decisi a entrare nel paese guidato da Trump che gli ha dichiarato guerra schierando l’esercito. Nessuno sa come andrà a finire, tantomeno quelle migliaia di disperati che sono disposti a tutto pur di sperare di poter cambiare la loro condizione di vita.
Ecco, quello è un segnale che ciascuno, in ogni parte del mondo, in un modo o in un altro, potrebbe far suo e seguire.
Un segnale che la speranza (che spesso purtroppo ha a che fare con la disperazione) non si arrende e che unirsi per cambiare quello che sembra essere un destino già segnato è possibile.
Dico per dire: se anche qui da noi ci si potesse unire per una grande (e forse ultima) speranza di cambiare un paese che ha deciso di seguire le orme di chi lo governa mostrando la sua faccia cattiva, incarognita, egoista, razzista, allora non ci sarebbe bisogno di leccarsi le ferite, accucciati e dolenti.
Ma così non è. Anche chi fa del bene e vuole bene al suo prossimo, e si batte perché le cose cambino, lo fa in modo dimesso e sommesso e soprattutto non rinunciando alla atavica vocazione alla divisione. I partiti si dividono, le associazioni si rannicchiano e si rinchiudono, le sinistre sparse si guardano con diffidenza.
E intanto, chi sta soffrendo soffre un po’ di più e chi sta facendo soffrire non trova ostacoli reali sulla sua strada di devastazioni.
Un esempio: lo scorso 26 luglio è stato sgomberato in via definitiva l’insediamento rom di Camping river a Roma. Insediamento autorizzato e indicato come fiore all’occhiello dell’accoglienza “buona” con i bambini quasi tutti a scuola, strutture abitative più che accettabili, pulizia, acqua, luce… 420 persone sono rimaste in mezzo a una strada. Per loro il comune ha offerto qualche soldo a patto che trovassero casa e temporanea osipitalità ma solo per mamme e bambini.
Da quel giorno in poi, quella comunità soprattutto, di rumeni e bosniaci, si è frantumata e a distanza di quattro mesi la maggior parte di loro è ancora prcheggiata (in senso letterale) alla stazione di Prima porta e dorme dentro le loro scassate automobili o dentro baracche fatiscenti e molti bambini non vanno più a scuola.
Loro avevano imparato la convivenza e non c’erano più frizioni tra famiglie e famiglie, tra paese e paese. Ora l’hanno dimenticata. Sì, perché uno degli effetti della persecuzione che li ha colpiti (che colpisce tutti i rom) è di aver cancellato ogni speranza di poter uscire dalla loro condizione, dal loro “destino”.
La nostra associazione (e anche altre) hanno più e più volte chiesto alle “autorità” della città di rispettare le promesse fatte, di restituire casa e dignità a quelli a cui l0hanno strappata con la forza.
E da domani i termomentri scenderanno anche di dieci gradi.