Un ragazzino nei campi
Pierluigi Sullo
C’è una questione che mi angustia e di cui vorrei discorrere con i miei amici, qui. Però la devo prendere da lontano, per spiegarmi, e quindi ci vuole pazienza. Anzi, doppia pazienza, perché questo è un tema che, solo a sentirlo nominare, in generale ci si distrae, si sente ma non si ascolta.
Molti anni fa, si era alla fine degli anni ottanta, cercavo di spiegare in una riunione di redazione perché Tom Benetollo dell’Arci e io ritenessimo importante convocare una manifestazione per protestare contro il razzismo crescente: in Campania era stato appena ucciso un migrante sudafricano, tale Jerry Masslo, che insieme a molti altri viveva in una baracca e la mattina andava a raccogliere pomodori (come non passa il tempo, eh?). Però notai che i miei compagni si erano distratti, chi leggeva il giornale, chi chiacchierava con il vicino, chi aveva lo sguardo perso verso il cielo azzurro: le migrazioni erano una questione molto nuova, che sembrava quasi secondaria, all’epoca. Così feci una cosa antipatica: mentre parlavo dei braccianti neri, infilai una parola e la pronunciai ad alta voce: “D’Alema!”, esclamai. E tutti gli sguardi e le facce si rivolsero di colpo verso di me: “Adesso ho la vostra attenzione”, sogghignai, già che la politica, il Pci sul punto di scomparire ecc. risultavano molto più interessanti.
Controprova. Qualche anno dopo, qualcuno mi incitò a leggere l’ennesimo libro sulla Shoah. Non che mi annoiassi, ma è un’angoscia ricorrente, quella vicenda, di cui credevo di sapere già molto. Presi comunque quel libro e lessi la storia, narrata da lui stesso, di un ragazzetto berlinese che verso la fine degli anni trenta viene fermato, o arrestato, lui stesso non capisce bene quale sia il suo status, dalla polizia, e via via trasferito in campi di lavoro, campi di concentramento, campi di sterminio, più o meno all’epoca in cui ad Amsterdam Anna Frank veniva arrestata, il ragazzo era quasi morto di fame e fu salvato in extremis da soldati con una stella rossa sul berretto. Questo ragazzino era Rom. E per tutta la lettura del libro dovevo, spesso, ricordare a me stesso: guarda che non stai leggendo di un ragazzino ebreo, ma di uno zingaro (termine che non trovo spregiativo, anzi, ma invece pare lo sia). All’epoca nessuno mi aveva spiegato che, insieme con i sei milioni di ebrei e centinaia di migliaia di altri non-umani, come i gay e i comunisti, anche mezzo o un milione di Rom erano stati eliminati dai nazisti.
Rom (o sinti) come Charlie Chaplin, Yul Brinner, Zlatan Ibrahimovic e Andrea Pirlo, tanto per dire. Ma non importa, non c’è nome famoso che tenga. La storia del Porrajmos, la Shoah zingara, è tuttora ignota al senso comune, mentre per gli ebrei ci si è rassegnati a conoscerne i tratti generali, almeno a sapere che è avvenuta, senza per altro ricavarne un gran che, se un sindaco idiota rifiuta il patrocinio del comune a un viaggio di studenti ad Auschwitz, per esempio. Sarà che non gli si perdona, agli ebrei, l’aver inventato alcune delle peggiori piaghe della cultura occidentale, come la teoria delle relatività, la psicoanalisi e, peggio ancora, il comunismo.
Ecco, quel che mi angustia è che i Rom non mi sono per niente simpatici. Li trovo sudicioni, fanno bambini come conigli, non imparano la lingua nemmeno se stanno qui per trent’anni e sembra che aspettino in eterno: di essere discriminati o insultati o più di rado assistiti, e quelli di loro che cercano di darsi da fare, di rivendicare la loro cultura e differenza ci sono, eccome, ma sono una minoranza, la cui voce è difficile assai da sentire. Cioè: quando penso queste cose, avendo visitato molti “campi” rom e parlato con molti di loro, alcuni molto colti, mi sento un po’ razzista.
Questo pensiero mi perseguita, mi fa star male. Perché subito riporto alla memoria le facce di quelli che ho visto, per esempio, nell’insediamento “provvisorio” (come tutto in Italia) chiamato Camping River, un ex camping affittato per anni dal comune di Roma e cancellato da un giorno all’altro, con la sindaca Raggi e il ministro degli interni di allora, un tipo grosso con un Rosario in mano, che assistevano soddisfatti alla distruzione, per mezzo di ruspe, di container e casette di legno in cui famiglie e bambini e donne affaticate e vecchi cocciuti avevano vissuto per molti anni e che ora venivano spinti verso il nulla, come se il fatto di chiudere il campo annullasse la loro esistenza.
Quelli del Camping River andarono ad accamparsi, in un certo numero, alla stazione ferroviaria di Prima Porta, dove usavano i gabinetti della ferrovia per lavarsi e le altre cose e letteralmente vivevano in mezzo alla strada, mentre il comune prometteva loro una certa somma se avessero accettato di tornarsene in Romania (chi era romeno), salvo che l’anticipo era a metà e il saldo non sarebbe mai arrivato, per cui molti andarono e tornarono. A Roma, si calcola, vi sono attualmente circa ottocento persone che sopravvivono in questa condizione: nessun posto dove stare, insediamenti ultra-precari sulle rive del fiume e in altri angoli nascosti, ché la loro presenza è di per sé uno scandalo che potrebbe incitare giovani nerboruti con il fez e impiegati frustrati di periferia e mettere in scena una protesta. Altri settemila circa sopravvivono in campi rom più o meno “regolari”, e da questi campi non si può entrare o uscire liberamente, c’è sempre un poliziotto locale che ti controlla. E però quando il comune di Roma decide che devono essere i poliziotti locali a distribuire i “buoni-spesa” del virus, questi tagliandi-fame non si vedono, o col contagocce. E per altro, la storia del virus è già finita, hanno deciso le autorità, e quindi le tre famiglie, circa venti persone (e molti bambini) che avevano trovato riparo nelle tende approntate in una sede della Croce Rossa, vengono sgomberate, le tende chiuse, non ci sono più contagiati. Ma le tre famiglie dove vanno?, chiedono le associazioni all’”Ufficio Rom” di Roma Capitale. Risposta: “Non sappiamo dove. Non abbiamo posto”.
Come se, appunto, esseri umani, per quanto antipatici e accompagnati da torme di bambini abituati a giocare con topi grossi come gatti o con gatti grossi come topi, si potessero cancellare con un tratto di penna. Oplà, non esistono più. Ma non era questa l’intenzione delle autorità di Berlino, quando presero quel ragazzino e lo mandarono in giro per i gironi infernali dell’Olocausto? Cancellarne l’esistenza, semplicemente. Non era questo quel che i nazisti facevano in Ucraina, per cui Gad Lerner andò a cercare il villaggio, lo Shtetl in cui avevano vissuto i suoi nonni, e non trovò nulla perché il villaggio semplicemente non esisteva più?
Credo che nei confronti dei Rom si eserciti uno stigma razzista almeno pari a quello che colpisce gli ebrei. Sono diversi, rubano, vivono nella sporcizia, chissà in che dio credono, se ne hanno uno, e non vogliono convivere con altri, ma solo tra loro. Gli ebrei, secondo gli stereotipi, erano abili con i soldi, cosmopoliti, talvolta rubavano i bambini: proprio come i Rom, mia madre per spaventarmi, quand’ero bambino, mi diceva “ti do alla zingara”, e la mamma era una buona persona.
E penso anche che, proprio come i bravi cittadini di Berlino forse sapevano e forse no quel che accadeva nel 1938 nella loro città, e in ogni caso non reagivano, noi oggi non riusciamo ad avere la visione chiara di quel che succede ai Rom, voglio dire che non ne prendiamo atto perché non vediamo di che tipo di persecuzione sono vittime e magari pensiamo di essere buoni se in metropolitana allunghiamo una moneta al tipo grosso e scuro che suona la fisarmonica. Forse ci vorrebbero un Jean-Paul Sartre o un Theodore W. Adorno che scrivano trattati sull’antiziganismo, come fecero con l’antisemitismo.