Dove sta il conflitto
Guido Viale*
Nelle fotografie della marcia di migliaia di honduregni verso gli Stati Uniti è difficile non riconoscere il Quarto stato di Pelizza da Volpedo attualizzato; e non vedere in quel loro presentarsi disarmati e affamati a una frontiera blindata non solo la disperazione, ma anche la convinzione che la Terra è di tutti; e la rivendicazione di ripartire tra tutti i beni che i signori della globalizzazione rubano al loro paese, costringendoli a lasciarlo. Ma è difficile anche non riconoscere nell’esercito mobilitato per impedire loro l’ingresso negli Stati Uniti una riedizione dei cannoni con cui, sul finire dell’800, il generale Bava Beccaris disperdeva e sterminava la folla dei manifestanti che lottavano per il pane. Ma questa non è che la versione americana delle tante stragi provocate dalla guerra scatenata contro i migranti nel Mediterraneo per farli affogare o respingerli nei Lager libici, alla mercè degli ascari al soldo dei governi europei; o delle barriere e dei respingimenti messi in atto nell’area Schengen; o alla cacciata dai centri di accoglienza dei tanti profughi a cui viene e verrà negata ogni forma di protezione. Insomma, è difficile non rendersi conto che tra coloro che cercano di entrare nelle cittadelle di un benessere (in gran parte alle nostre spalle) e i poteri che si adoperano per respingerli è aperta un conflitto sociale o, se vogliamo, una “lotta di classe” di portata planetaria, destinati a dominare il nostro secolo.
A offuscare lo sguardo di fronte a uno scenario così chiaro c’è il fatto che a difesa dei loro privilegi e dei loro poteri giganteschi i signori della globalizzazione hanno messo in campo non solo armi e armamentari di ogni genere, ma anche e soprattutto la mobilitazione sovranista, cioè nazionalista, e anche fascista, ma sostanzialmente razzista, di una parte crescente dei loro sudditi diretti: cioè noi, i nativi dei paesi che sono meta di questo “assalto al cielo” da parte dei migranti. Gli interessi di migranti e nativi non sono opposti: entrambi, in forme e in misura diverse, sono sottoposti sempre più al giogo e allo sfruttamento della grande finanza che domina il mondo. Ma, come già al tempo del colonialismo storico e dell’imperialismo (“ultima fase del capitalismo”; magari!), quei nativi – che siamo noi europei e statunitensi “autoctoni” – sono l’unico referente delle forze che si pretendono argine o nemiche di quei poteri mondiali. Per loro i migranti restano un “intoppo” o un problema marginale; e così ci consegnano in ostaggio proprio al giogo del capitale che esse pretendono – o fingono – di combattere.
Oggi il conflitto sociale che oppone i poteri che governano la Terra alle genti in cammino che vorrebbero riappropriarsene è innanzitutto lotta per l’egemonia politica e culturale su quella “zona grigia” che siamo noi, popolazioni “native”. Questo spiega ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti: e cioè come mai in aiuto degli interessi che dominano un mondo ormai globalizzato siano stati mobilitati sovranismi, nazionalismi (e anche fascismi) di ogni genere; che non ne sono certo gli antagonisti, ma, anzi, il supporto più sicuro: l’unico in grado di far argine alle rivendicazioni, ma soprattutto ai corpi e alle vite, di quelle genti in cammino che esigono di condividere con noi i beni che sono stati loro sottratti.
Quanto a noi “nativi”, quell’egemonia l’abbiamo lasciata in mano all’avversario: e tanto più quanto più abbiamo pensato che per sottrargliela bastasse sostenere programmi e misure che non fanno i conti con il contesto generale di quel conflitto, ma considerano solo i pro e i contro immediati: l’offa avvelenata che dovrebbe proteggere la “nazione” da entrambi, il grande capitale e i migranti.
Oggi, a sostenere i poteri che dominano il mondo globalizzato c’è uno stuolo di loro rappresentanti impegnati in quasi tutto l’arco della politica, parlamentare e non, delle professioni, dell’accademia, delle forze di repressione. Mentre a sostenere le ragioni e i corpi delle genti che premono, anche al prezzo delle proprie vite, sui confini delle cittadelle di un benessere sempre più evanescente, non c’è per ora quasi nessuno; solo un papa che predica sempre di più al vento, impigliato com’è nel roveto degli interessi, dei vizi e della corruzione dell’organizzazione di cui è a capo; e le mille organizzazioni della solidarietà – quelle che lavorano ai confini di mare e di terra per salvare delle vite, quelle che operano onestamente nell’accoglienza, quelle impegnate nei rari quanto straordinari processi di inclusione sociale – messe ai margini e criminalizzate da una persecuzione che non dà tregua. E’ una lotta impari come lo era agli albori del movimento operaio, quando un “volgo” disperso e disorganizzato si scontrava con un apparato di repressione convertito dalla guerra al nemico esterno alla repressione del nemico interno. Ma è qui che si decidono collocazione e compiti immediati e futuri di ciascuno: dare rappresentanza a chi non ce l’ha e impegnarsi alla riconquista di una egemonia culturale e politica su quella zona grigia che siamo noi, in nome, per conto, ma sempre più anche insieme, a quei migranti che oggi rappresentano la vera antitesi dello stato di cose esistente. Dimostrare con la pratica, e non a parole, che gli interessi profondi di nativi e migranti coincidono; che entrambi hanno tutto da guadagnare corrodendo il potere di chi ci governa. Tutto ciò – va ricordato – sullo sfondo di cambiamenti climatici, tempeste ambientali, guerre e sconvolgimenti sociali che sono all’origine sia della fuga forzata di milioni di persone dalle terre dove le loro comunità hanno abitato per secoli, sia del potere che si è andato concentrando in un pugno di satrapi sordi ai problemi posti dalla devastazione del pianeta. Il che ricongiunge indissolubilmente giustizia sociale verso il prossimo e giustizia ambientale verso il pianeta e il vivente; perché le prime e maggiori vittime di questo dissesto di dimensioni planetarie sono i poveri della Terra.
*Questo articolo è stato pubblicato oggi sul Manifesto