E’ il momento di essere uniti
Daniele Cini
Immaginiamoci se avessero trovato il paziente zero e il primo focolaio alle Vele di Scampia, o tra le roulottes di un campo Rom o peggio, in un barcone sbarcato a Lampedusa.
In quest’Italia del 50% razzista (almeno così dicono i sondaggi), sarebbe partito un linciaggio mediatico, e forse chissà, anche bande di violenti in giro a incendiare e bastonare gli untori, con morti e feriti.
Il fatto che tutto sia iniziato nel lodigiano e poi nell’entroterra veneto, in zone più contaminate dall’import export che dalle epidemie del sottosviluppo, se uno cerca di vedere il lato positivo anche nelle sciagure, si può dire sia stata una fortuna (mi perdonino i lombardo-veneti).
Nel senso che risulta chiaramente che il virus, anche se viene dalla Cina, non è certo un lascito o una conseguenza dell’immigrazione, come ci ha voluto far credere fino a ieri il sovranismo reazionario europeo: è il risultato casomai della globalizzazione, dello scambio delle merci, del viaggiare liberi per il mondo, tutte cose che riguardano piuttosto la fascia meno svantaggiata della popolazione.
Preciso subito: non mi piace il catastrofismo, mi allarma la psicosi collettiva, credo che ci siano in giro nel mondo sciagure più gravi.
Ma sul coronavirus non sono affatto ottimista.
Perché comunque c’è gente che rischia veramente, un certo numero di persone che sta soffrendo in terapia intensiva e una percentuale non insignificante di quelli che ci hanno lasciato la pelle.
Vedo che molti commentano infastiditi i toni di chi si preoccupa, ritenendoli eccessivi, evocando epidemie ben peggiori di questa, o segnalando l’esagerata attenzione mediatica, mentre, ad esempio, succedono cose ben più orribili ai migranti al confine greco-turco o agli sciagurati intrappolati a Idlib sotto le bombe. Tutto vero, certo.
Molti invece si incazzano per il danno d’immagine e le ricadute economiche di tanto allarmismo.
Ma in che modo è possibile ora fare prevenzione se non parlandone, accertando il danno e circoscrivendolo il più possibile?
Esiste un altro modo che non sia il rallentare, ridurre il ritmo, chiudere qualche porta, perdere soldi, dire i numeri veri?
Mi viene da ricordare che negli anni ’70, si cominciò a sviluppare un pensiero critico, anticapitalista, che invocava un capovolgimento nella concezione della sanità e della medicina, mettendo al primo posto la prevenzione, piuttosto che le terapie, la diagnosi precoce da parte di una sanità pubblica rispetto alla cultura del farmaco e criticando il prevalere dell’economia e del profitto sulla salute di tutti.
Cominciò dopo il disastro di Seveso (Lombardia), fu portata avanti da uno straordinario medico, Giulio Maccacaro (nato, pensate, a Codogno!) e dalla sua rivista “Se/Scienza Esperienza” a cui collaborò anche mio padre, Marcello Cini. Furono i primi passi dell’ambientalismo in Italia.
Si criticava il consumismo dei medicinali, il silenzio sulle condizioni di lavoro e naturalmente il disastro ambientale causato dallo “sviluppo”. Si auspicava una “austerity” egualitaria, una – diremmo oggi – “decrescita” se non felice, che almeno frenasse quella corsa che poi ha continuato a accelerare fino ad oggi. Sembrano tematiche obsolete, persino chiacchiere. Certo il mondo non è lo stesso di 50 anni fa.
Ma se in questo momento ci tocca rallentare, se si torna a porre l’enfasi sulla prevenzione, sulla riduzione persino del tempo dedicato al lavoro, seppur con le conseguenze ansiogene che ne derivano, non dovremmo pensarlo soltanto come un tracollo o deriderlo come una psicosi ipocondriaca: a me sembra un legittimo sforzo comunitario per proteggere la salute di tutti, soprattutto dei più deboli.
Paradossalmente, questo disastro che stiamo vivendo, le cui conseguenze sul lavoro di molti saranno tragiche, soprattutto per chi non è protetto da un lavoro dipendente, potrebbe però alla lunga portare persino dei benefici.
Innanzitutto, come dicevo, spostando le paure e la rabbia sociale dal disprezzo verso i poveri, dal capro espiatorio degli immigrati o dei meridionali verso un nemico reale, che è un fattore imponderabile da cui dobbiamo trovare tutti insieme la maniera per difenderci.
Ma forse, in questo contesto drammatico, potrebbe addirittura ritornare un senso di solidarietà civile, di rinnovata presenza dell’intervento pubblico nell’economia (la nomina di Mariana Mazzuccato come consulente di Conte mi sembra un’ottima notizia), di fiducia e di rafforzamento della sanità pubblica e persino, chissà, di rinnovata coesione europea (nel caso l’Europa ci venisse in aiuto – cosa peraltro improbabile se avessimo al governo Salvini e Meloni).
Certo l’economia non riparte solo con maggior deficit e aumento della spesa sociale. Ma almeno con un sostegno diretto si potrebbero riequilibrare le distorsioni di anni di liberalismo selvaggio e di disprezzo del ruolo dello Stato.
Naturalmente potrebbe accadere anche il contrario: che aumentino la rabbia e il separatismo, l’odio e la diffidenza reciproca e che il disastro economico spinga tutti quanti verso soluzioni autoritarie.
Ma se è vero che le grosse crisi portano spesso nuove opportunità, mi auguro invece che fra la gente, di fronte a una prova così dura, si sviluppi una maggiore consapevolezza.
E che le forze che compongono questa fragile maggioranza di governo, si rendano conto che è il momento di cooperare, di non farsi sgambetti, di trovare linguaggi comuni e di restituire a questo nostro sgangherato paese l’orgoglio collettivo di saperne uscire fuori.