I dimenticati
Anna Pizzo*
Due storie “esemplari”, la prima è vera, la seconda no ma è come se lo fosse.
La prima si svolge a Collegno, cittadina di 50 mila abitanti, a dieci chilometri da Torino. In molti la ricordano per via dello “smemorato di Collegno” una storia che parla in modo chiaro, a distanza di novant’anni, a chi sa ascoltare.
Il caso dello smemorato di Collegno è la vicenda di un uomo affetto da amnesia ricoverato presso il manicomio di Collegno che fu identificato dalle rispettive famiglie sia come il professor Giulio Canella, disperso durante la Prima guerra mondiale, sia come il latitante Mario Bruneri. Sebbene il processo civile stabilì che lo smemorato fosse in realtà Bruneri, la famiglia Canella continuò a riconoscerlo come il proprio parente.
Ora l’attuale sindaco è riuscito a far acquistare alla città di quel lontano episodio trasformato in un luogo comune un nuovo interesse, altrettanto denso di luoghi comuni. Lo ha fatto impedendo a una bimba rom di quattro anni di salire sullo scuolabus perché “non in possesso del necessario documento di residenza”. Tutto si consuma nel giro di qualche giorno: prima il sindaco si vede “costretto” a vietare lo scuolabus alla bimba che quindi ogni mattina dal campo rom della Berlia raggiunge a piedi l’asilo camminando per quaranta minuti. Subito dopo alcuni cittadini e alcune associazioni, tra cui Cittadinanza e minoranze, inviano al sindaco una protesta e una richiesta immediata di revoca del provvedimento. A quel punto il sindaco risponde a Cristina (della nostra associazione) dicendo che comprende “la rabbia che un titolo e un articolo di giornale possano provocare” e precisando che il pulmino lo prendono tutti i bambini del campo ma “il singolo mancato trasporto in questione è purtroppo la conseguenza della mancata residenza che, nonostante i solleciti, formalmente la famiglia della bambina non ha mai richiesto”. Snocciola la necessaria documentazione prevista dal D.Lgs 30/2007 e rassicura tutti: “Troveremo una soluzione, come abbiamo del resto sempre fatto gli anni scorsi, nel rispetto, però, delle regole: esse valgono per tutti”.
Il giorno dopo, un gruppo di cittadini brave persone decide di pagare il taxi alla bimba fino a quando le cose non si sistemeranno. E ora le cose si sono sistemate: il sindaco ha trovato la soluzione “concedendo” la residenza alla famiglia rom.
A questo punto, tre domande sorgono spontanee: perché, se il sindaco poteva concedere questa benedetta residenza “nel rispetto delle regole”, fino ad ora non lo ha fatto? E ritiene il sindaco che questo episodio scorrerà come acqua fresca sulle spalle di una bambina di quattro anni? La terza domanda è per la cronaca della Repubblica: perché una bambina nata e cresciuta in Italia viene definita nel titolo del quotidiano “Bimba nomade”?
La seconda storia nasce dalla fiction che da oltre vent’anni ogni sera, dal lunedì al venerdì, va in onda su Rai Tre dalle 20,40 alle 21,10: “Un poso al sole”. Da qualche puntata alcuni dei protagonisti hanno scoperto che esistono i rom. Qualcuno facendo un brutto incontro, altri cercando di sostenere una famiglia regolarmente assegnataria di una casa popolare che subisce minacce e violenze dai vicini di casa. Ed è così che si squaderna il “problema”: c’è chi dice che i rom sono tutti delinquenti e chi invece dice che ci vuole “l’integrazione”.
Personalmente, quando sento la parola integrazione mi ricopro di bolle purulente perché penso che, in generale, sia una miserabile foglia di fico che, tradotta, vuol dire “non ti ci vogliamo perché sei diverso da noi” e, in particolare, parlando di rom, è solo la più totale delle impossibilità. Tuttavia, capisco che “Un posto al sole” viene visto da persone molto diverse e molto distanti da me perciò non mi arrabbio. Anzi, penso a quando Raffaele Giordano, il portiere del palazzo Palladini (Patrizio Rispo) venne alla premiazione dei bambini delle scuole sostenuti dall’associazione Altramente e fu una grande festa per tutti.
Ora l’assistente sociale, nella fiction, è disperata perché la famiglia rom, dopo essere stata minacciata in ogni modo possibile, ha deciso di tornarsene al campo da cui era appena uscita. E decide di organizzare una mobilitazione con associazioni, sindacati e sindaco. Al momento non so come andrà a finire, ma posso raccontare come è finita una vicenda che la mia associazione – Cittadinanza e Minoranze – ha seguito da vicino. Ricordate le cosiddette “rivolte” contro l’assegnazione della casa popolare a famiglie rom a Torre Maura e Casal Bruciato? E ricordate la presa di posizione indignata della sindaca Raggi? Ebbene, una delle famiglie assegnatarie, viste le continue intimidazioni, ha deciso di tirare su le proprie cose e tornarsene al campo. Invece no, perché la casa popolare fa decadere il diritto al container cosicché ora quella stessa famiglia vive in una baracca fatta di cartone e assi di legno.
Non basta: entro dicembre a Roma i campi rom della Barbuta e della Monachina dovranno essere sgomberati. E’ scritto nel cosiddetto “Patto” del comune, che sta letteralmente erodendo la terra sotto i piedi di chi ancora abita lì. La paura di finire come successe a quelli di Camping River, qualche donna con figli ma rigorosamente senza i mariti in strutture tipo Croce Rossa e per gli altri il parcheggio di Prima Porta sta spingendo molte famiglie a fare domanda per l’alloggio popolare. Ma il gioco dell’oca è infinito così senza documenti in regola non si può fare nulla. Allora, stando al “Patto”, si potrebbe tentare la carta dell’affitto a 800 euro al mese sostenuto dal comune ma non c’è nessuno che si senta di affittare casa ai rom, tanto meno se “finanziati” da una istituzione che promette e non mantiene.
Non resta, dunque, che cambiare le regole. Sembra facile, e ci sta provando perfino l’Unione Europea che proprio in questi giorni sta sollecitando tutti i paesi a riformulare la Strategia di inclusione di rom, sinti e caminanti che a fine anno termina i primi sei anni di “sperimentazione”. Ma l’Italia? Come anche in passato, parte a rilento e, diciamolo, alla chetichella. Così sta lavorando Unar (l’Ufficio contro le discriminazioni della presidenza del consiglio) che si fregia del del titolo di “Punto di contatto” ma non contatta mai nessuno. Una cosa è certa, la prima fase “sperimentale” della Strategia europea si è rivelata un fallimento e una colossale bufala. E’ presto per entrare nei particolari della “fase 2” ma un dettaglio salta agli occhi: uno degli assi individuati dalla Strategia europea, relativo al diritto all’abitare, si intitolava “Soluzioni abitative e accesso alla casa”. Ora, nella bozza dell’Unar per i prossimi sette anni, quel titolo è diventato “Problematiche abitative” (!).
Noi e Il Gattopardo la pensiamo allo stesso modo: “Tutto cambia perché nulla cambi”.
Ogni storia si conclude con una morale. Ecco la nostra: visto che entro un paio di mesi centinaia di persone saranno cacciate dai luoghi indecenti e vergognosi nei quali hanno abitato per venti, trent’anni e visto che molti di loro stanno già abbandonando i campi ma non per “tornarsene ai loro paesi”, dal momento che sono cittadini italiani a tutti gli effetti, ma per rifugiarsi sulle sponde dell’Aniene o sotto i ponti, la nostra morale è che tutto questo è immorale.
* Questo articolo è stato scritto per Dinamopress ed è uscito il 21 novembre.