I vizi di “casa nostra”
Un articolo di Francesco Gesualdi uscito su Avvenire.
martedì 29 agosto 2017*
*Molti vizi ci impediscono di affrontare in modo corretto il dramma dei
“migranti economici”: l’ipocrisia, la smemoratezza, l’ignoranza, la
complicità con gli sfruttatori delle regioni colonizzate. Eppure, 4 milioni
sono i migranti italiani. *
Ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: o ponendoci
l’obiettivo di toglierceli dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio.
In un caso pensiamo solo per noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad
oggi sembra prevalere l’egocentrismo. Ma, sotto sotto, non ci sentiamo a
posto e ci siamo fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra
coscienza. La prima giustificazione che ci siamo creati è che l’obbligo di
accoglienza vale solo per i rifugiati politici, mentre abbiamo il diritto
di respingere i migranti economici, coloro, cioè, che sono in cerca di
migliori condizioni di vita.
L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se questa regola
venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci l’espulsione di
ben quattro milioni di connazionali sparsi per il mondo. Da sempre abbiamo
considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se volessimo
negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale libertà,
dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle persone. Ma
forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha
accecato a tal punto da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione
tutta rivolta alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e della
giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà.
E non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte, più inneschiamo
situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Diciamocelo: i migranti che
scelgono la via del deserto non sono né masochisti, né amanti
dell’illegalità. Sono dei forzati alla clandestinità perché le vie di
ingresso ufficiali sono precluse. Se potessero arrivare in aereo con
regolare passaporto, sarebbero ben felici di farlo. E se in Italia non
trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne andrebbero dove il lavoro
c’è, perché la loro vocazione non è né quella dell’accattonaggio, né del
brigantaggio. Sono persone in cerca di un lavoro per mantenere le famiglie
rimaste a casa. Che le cose stiano così lo sappiamo molto bene anche noi,
tant’è che il secondo alibi che ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a
casa loro. E se lo diciamo è perché abbiamo ben chiaro che nessuno di loro
affronta un viaggio così pericoloso per fare una passeggiata, ma per
sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle guerre, ora alla repressione
politica, ora alla mancanza di prospettiva di vita.
Ciò che non diciamo è che questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso
500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La storia, alla fine presenta
sempre il suo conto. L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura
transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo
ancora parte attiva, addirittura i suoi artefici. Per risolverla, dunque, è
da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto produttivo e di consumo,
dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti commerciali, dal nostro
assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi corruttivi e di rapina.
Lo slogan giusto è «cambiamo le cose qui affinché cambino là». Per partire
dovremmo porre uno stop serio alla vendita di armi e subito dopo dovremmo
avviare nuovi rapporti economici.
Dovremmo stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi equi e
stabili ai produttori, dovremmo imporre stabili divieti alla finanza
speculativa sulle materie prime, dovremmo smetterla con accordi che
autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e a prendersi le loro
terre, dovremmo punire le nostre imprese che non garantiscono salari
dignitosi nelle loro filiere globali, dovremmo smetterla di imporre accordi
commerciali che favoriscono i nostri prodotti e distruggono le loro
economie, dovremmo vigilare da vicino gli investimenti esteri delle nostre
imprese per impedire comportamenti corruttivi a vantaggio di pochi capi
locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali. Delle 181mila persone
disperate sbarcate sulle nostre coste nel 2016, il 21% erano nigeriani.
Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una delle più grandi economie
africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo Lamido Sanusi, già
governatore della Banca centrale nigeriana, nei soli anni 2012-13 sono
stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti
dalla vendita di petrolio alle compagnie internazionali, Eni compresa. Quei
soldi sottratti ai nigeriani sono finiti sui conti cifrati aperti da
personalità di governo in Svizzera, a Londra e in vari paradisi fiscali.
Con la complicità di grandi banche internazionali. E non solo. Anche di
Stati e Governi poco vigilanti, e l’Italia non è affatto esclusa. È proprio
il caso di dire «aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra».