Il violinista

Lucia Pepe*

«Attenzione chiusura delle porte»….Apertura del sipario, si va in scena.

«Signori spero che la melodia del mio violino abbia rallegrato il vostro monotono tragitto metropolitano. Il vostro applauso è la mia migliore ricompensa, ma visto che non è così appetitoso, se potete, anche qualche monetina sarebbe gradita». Sorriso, cappello.

Il mio ritornello è sempre più o meno lo stesso, ma la vera melodia, quella che esce dal mio violino, quella cambia sempre.

Loro non sanno delle mie notti passate a studiare con “lo zio” al campo; mi guardano e vedono solo come uno zingaro che chiede monetine.

Avevo otto anni quando, appena finito il mio “spettacolino” in metro, si avvicinò a me un signore elegante e discreto, e mi chiese se suonassi perché amavo le note che uscivano dal mio violino o se fossi obbligato da qualcuno a farlo.

Non sapevo come rispondere: non conoscevo bene l’italiano e soprattutto era una questione che non mi ero mai realmente posto; allora, anziché rispondere, cominciai a suonare. Il volto dell’elegante signore si illuminò, scrisse il nome di una via sul retro del suo biglietto, me lo porse, e se ne andò.

Scendo da un vagone e salgo su un altro, ma i giudizi che esprimono i loro sguardi sono sempre gli stessi; non sanno che quel rom e il suo malandato violino sono stati ospiti di grandi teatri.

Se dico di essere un nomade, un vagabondo, un viaggiatore probabilmente data la mia origine molti arricceranno il naso; ma questa non è una condizione genetica, legata ai miei tratti somatici, e neppure culturale: è stato il violino ad arricchire la mia vita di viaggi, incontri, avventure e tanta tanta musica; come potrebbe essere per un qualsiasi cantante pop, che invece viene osannato e invidiato per la sua vita sempre in tournèe.

La mia famiglia viveva in un campo nomadi, è vero, non perché avessero in mente di fare una vita nomade: semplicemente perché o non potevamo permetterci un certo appartamento o non eravamo graditi agli altri condomini in un altro; mentre al campo, benché non ci fosse il calore di una stufa, quantomeno c’era quello del profondo affetto della nostra grande famiglia allargata. (Che poi chissà perché insistono col chiamarlo campo nomadi? Per quel che ricordo io, gli unici spostamenti fatti con la mia famiglia, non erano affatto volontari, ma obbligati a seguito degli svariati sgomberi).

Un giorno, particolarmente infastidito dagli sguardi indifferenti della gente che mi sentiva suonare, e non apprezzava la nuova melodia, che avevo faticosamente imparato in diverse nottate di studio, superai le paure e l’imbarazzo e decisi di provare. Arrivato alla via che l’elegante signore mi aveva scritto sul biglietto, sentivo la musica uscire da tutte le finestre, presi il violino e cominciai anch’io a suonare, passò qualche minuto e arrivò un uomo che mi disse di entrare e seguirlo.

Mi condusse in una stanza e, non potevo credere ai miei occhi quando vidi dieci bambini come me che suonavano il violino: mi sedetti fra loro, guidato più dalle note che dalla ragione, e mi unii a loro.

Fu la mia prima lezione del maestro Bolfetti: ora, oltre che elegante, era diventato anche estremamente autorevole ai miei occhi.

A quella seguirono molte altre lezioni, anche se fin dall’inizio fui il primo della classe; e lo stesso maestro venne al campo un giorno a complimentarsi con “lo zio” che in quegli anni aveva dedicato tutte le sue serate alle mie lezioni di violino.

E poi vennero i concerti, i viaggi, la fama… e allora tutti avevano dimenticato le mie origini.

Oggi per una serie di vicissitudini, che mi hanno buttato giù da quei palchi tutti luci e applausi tanto improvvisamente quanto all’improvviso mi avevano messo sul piedistallo, mi ritrovo a suonare in metro e a volte passo anche serate al nuovo campo con vecchi amici d’infanzia.

Ho imparato, pur non andando a scuola; sono diventato “nomade” quando non ero più identificato come rom.

*Da Il meglio del blog della bottega del barbieri

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