Il virus del razzismo
Da “Cronache di ordinario razzismo”.
Tra il 20 gennaio e l’8 marzo, solo per riportare i casi documentati da Cronache di Ordinario Razzismo, sono stati almeno 61 gli episodi di insulti, discriminazioni, attacchi incendiari e aggressioni che hanno colpito cittadini stranieri in connessione alla diffusione del virus Covid-19. Nella grandissima parte si tratta di cittadini cinesi e asiatici, ma non solo. Gli insulti hanno tutti lo stesso tenore e fanno riferimento per lo più alla scarsa igiene che “caratterizzerebbe” certi gruppi o popolazioni.
“Vi cacciamo dall’Italia, cinesi di m…” (Milano), «Mancavano gli “onti” (sporchi, in dialetto veneto, ndr) cinesi per impestarci» (Casier, trevigiano), “Spero che ti venga il virus come nei mercati in Cina” (Cesano Boscone, milanese), “Andiamocene che questi portano la Sars” (Torino), “Schifosi sudici, andate a tossire a casa vostra” (Firenze), al “Vattene via, maledetta cinese. Ci infetti tutti” (Venezia). Sono solo alcuni esempi.
Una vera e propria “caccia agli untori”, che non esclude la forza. Come è successo a Cagliari l’8 febbraio scorso, dove un cameriere filippino residente ad Assemini è stato insultato e picchiato sull’autobus perché scambiato per un “cinese portatore del Coronavirus”. Ricoverato in ospedale ha ricevuto una prognosi di 30 giorni per un trauma facciale.
Naturalmente, come succede ormai sistematicamente, non manca chi alimenta e cavalca cinicamente la paura, contribuendo ad innescare il perverso intreccio tra il panico collettivo, questa volta scatenato dalla diffusione del virus (e da un’informazione non esattamente esemplare), la xenofobia e il razzismo.
A Brescia il 2 febbraio i militanti di Forza Nuova hanno affisso volantini sulle vetrine di alcuni negozi gestiti da cittadini asiatici invitando a comprare solo merci italiane. Solo tre giorni fa, l’8 marzo, un incendio ha danneggiato i locali di un ristorante cinese a Rivoli. Era stato addirittura annunciato qualche giorno prima da un gruppo di giovani messi in fuga dalla polizia chiamata dai gestori.
L’1 marzo, il presidente della regione Veneto ha pronunciato nel corso di un’intervista su Antenna 3, tv a diffusione regionale, le seguenti parole: “Li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi o questo genere di cose”. L’intervista è stata rilasciata a una tv che ha una diffusione limitata, ma il liquido mondo dei social ne ha amplificato di molto l’eco, contribuendo ad alimentare quella “caccia all’untore” che negli stessi giorni, ha iniziato a colpire altrove in forme analoghe alcuni nostri connazionali all’estero.
“Sei italiano, quindi hai il coronavirus” è la frase rivolta a un giovane di Termoli trasferitosi per motivi di lavoro (ben prima che il virus si diffondesse in Italia) nel Regno Unito. Nello stesso paese, tre istituti privati hanno disposto la chiusura il 27 e 28 febbraio per procedere alla sanificazione dei locali. Motivo? La presenza tra gli studenti di alcuni giovani di origine italiana.
Forse proprio l’eccezionalità del momento in cui ci troviamo dovrebbe spingerci a riflettere sulla facilità con la quale, nel gioco perverso della discriminazione, della xenofobia e del razzismo, i ruoli della vittima e dell’aggressore possono invertirsi, non risparmiando nessuno. Il razzismo è sempre un rapporto di potere tra una maggioranza che si sente più forte e una minoranza stigmatizzata per i motivi più diversi: in quanto tale può mutare non appena subentri un elemento che muti il contesto. Chiunque può dunque trovarsi nella condizione di essere discriminato. Nessuno escluso. Dovremmo ricordarcelo a maggior ragione oggi, in un momento così difficile e straordinario per il livello di limitazione dei nostri diritti, sia pure costituzionalmente previsto, nel quale ci troviamo.
Lasciare che la spirale di disagio, rabbia, paura e violenza sfoci nella caccia all’alieno di turno non può che destinarci a una società incattivita e priva di futuro, in una guerra contro tutti in cui non si salva nessuno.
La bussola del futuro dovrebbe avere come punti cardinali la lotta contro le diseguaglianze, la salvaguardia della terra che ci ospita, la pratica della solidarietà e la ricerca di uno sviluppo umano. Nessuna donna e nessun uomo escluso.
Sarebbe dunque quanto mai opportuno che il Governo e le autorità competenti, proprio in questo “stato di eccezione”, dedicassero una specifica attenzione anche alla garanzia delle condizioni di salute delle migliaia di persone che, nonostante la diminuzione forzosa degli arrivi di migranti e l’espulsione dal sistema di accoglienza di altre migliaia, si trovano ancora oggi ospitate nei centri Siproimi, nei Centri di accoglienza straordinaria e nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio.
A dispetto delle parole di qualche cinico capitano, mettere in sicurezza la salute e la vita di tutti non è solo indispensabile, ma è cosa buona e giusta.