Monachina, dove si sopravvive a colpi di ultimatum
È scaduto ieri l’ultimatum inviato dal comune a cinque famiglie rom del campo della Monachina, a Roma ovest. Avrebbero dovuto abbandonare le loro case entro le 7 di mattina. A quell’ora, però, non c’era quasi nessuno. Non c’erano gli agenti di polizia che avrebbero dovuto sgomberare, né le persone che lo sgombero avrebbero dovuto subirlo. Una signora, sulla settantina, aveva dormito su una panchina in un parco con la figlia. Un uomo aveva preso i suoi sette bambini, terrorizzati, e si era accampato nelle vicinanze, in attesa di capire cosa sarebbe accaduto. Era rimasta solo un’anziana non autosufficiente: nonostante tutto, non poteva muoversi.
Gli ordini di abbandonare le baracche, negli insediamenti istituzionali o tollerati (come questo), piovono da settimane su coloro che non hanno sottoscritto il «Patto di responsabilità solidale», lo strumento attraverso cui la giunta Raggi avrebbe voluto superare i campi rom. «Non sappiamo se l’azione di forza sia stata fermata per la sua assurdità o per le pressioni delle associazioni – afferma Cristina Mattiello, attivista di Cittadinanza e minoranze e insegnante di lettere – Gli sgomberi senza alternative sono illegali, soprattutto con la legge che li blocca fino al 31 dicembre a livello nazionale: perché verso queste situazioni di estrema fragilità il blocco non dovrebbe valere?».
La situazione di emergenza sanitaria solleva anche un’altra questione, di non poca importanza. «Finora nei campi della capitale non ci sono stati casi confermati di Covid-19 – continua Mattiello – La possibilità di accedere all’acqua è stata fondamentale per scongiurare il contagio. Buttare le persone per strada durante una pandemia è folle e crea un rischio per loro e per tutta la cittadinanza».
A La Monachina, chilometro 13 della via Aurelia, vivono in circa 90. Alcuni sono scappati dall’ex Jugoslavia durante l’ultima guerra, ma invece di essere riconosciuti come rifugiati sono stati considerati nomadi e messi nei campi. Altri sono arrivati in Italia ancora prima. Poi ci sono quelli che a Roma ci sono nati: almeno due delle tre generazioni presenti nell’insediamento. In tanti sono senza documenti perché non hanno potuto chiedere la cittadinanza. Non avevano tutti i requisiti, come il soggiorno in regola dei genitori, e possono solo ambire all’apolidia. «Anche questa è una follia, non sono mai usciti dalla capitale», dice ancora Mattiello.
Nino Ametovich, invece, è cittadino italiano: ha 41 anni, lavora come badante e arrotonda lo stipendio nel settore delle pulizie. «Il patto proposto dal comune non funziona – spiega – Per noi non è facile trovare una casa. Poi bisogna lasciare la caparra e i primi mesi di affitto anticipato. Il contributo del comune arriva solo dopo. Ma non abbiamo 3 mila euro da anticipare per prendere un appartamento». La madre di Ametovich è arrivata in Italia negli anni ’60, dal Montenegro. A La Monachina è finita tutta la famiglia dopo lo sgombero di un altro insediamento.
«Il comune ci ha fatto venire in questo campo con l’inganno e ci ha abbandonati – continua – Hanno allacciato l’acqua dopo dieci anni, solo perché andavamo a lavarci alle fontanelle di Casal Lombroso e la gente dei palazzi vicini si lamentava. L’elettricità non c’è. Sette mesi fa hanno distrutto due baracche e hanno lasciato tutto qui. A parte il ferro. Quello lo hanno portato via». Le piacerebbe uscire dal campo e andare a vivere in una casa vera? «È stato il mio sogno per tanti anni, andare in un palazzo con gli italiani. Ma vedo che ancora oggi, nel 2020, c’è tutta questa discriminazione contro i “rom”, anzi contro gli “zingari”, e penso sia meglio rimanere qui. Sarei il capro espiatorio di tutto ciò che non va».
Dal Manifesto del 21 agosto
articolo di Giansandro Merli