Piano piano
Di solito i rom finiscono sui giornali quando commettono qualcosa di “male”. Ultimamente, in almeno un paio di occasioni, qualcosa di”male” è stata fatta a loro, come nel caso del camper dato alle fiamme in cui sono morte due bambine e una ragazza a Roma e due giorni fa a Milano, quando una poco più che quarantenne è morta per un attacco di cuore in mezzo a una strada. Oggi, per la terza volta in poche settimane, si parla di rom perché la sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha presentato alla stampa il suo piano per la chiusura dei campi (potete leggere la notizia qui accanto). Alcuni esperti di associazioni dicono che si tratta di aria fritta e che, oltretutto, il Comune ha perfino sbagliato le cifre di quelli che dovrebbe far uscire dai campi anche se la sindaca afferma che tali cifre sono frutto di un “ampio e accurato monitoraggio”.
La verità è che dei rom sanno poco quasi tutti, salvo quei (pochi) che li seguono con vana assiduità e che ancora meno riescono a fare per modificare uno stato di cose che né le leggi italiane né quelle europee né la decenza hanno scalfito. La sindaca è convinta di chiudere due campi in poco tempo ma non precisa dove le persone che da anni vivono in quei campi andranno né come potranno vivere senza un lavoro né come potranno evitare di ammalarsi e morire a 42 anni. Anche il cosiddetto “diritto allo studio” nelle proposizioni della sindaca diventa una procedura burocratica o, peggio, contabile.
C’è chi è disposto a scommettere che questo piano naufragherà come tutti quelli che lo hanno preceduto anche perché si basa su una affermazione tutta da verificare: e cioè che i fondi europei destinati ai rom arrivino effettivamente e che non vengano dirottati verso altri lidi più o meno legali.
Noi, che vogliamo essere ottimisti, non diciamo che sarà un buco nell’acqua. Diciamo, però, che sarebbe costato poco o nulla alla amministrazione romana avere un po’ di coraggio e mostrare che cinque o settemila persone possono entrare a far parte del tessuto sociale di una città accogliente e solidale oggi stesso, non domani né “entro due anni”. Perché ogni giorno trascorso nei campi è una scommessa persa per tutti, a cominciare da chi ci governa.
E uno schiaffo alla democrazia.