Questione di rispetto

Luca Bravi*
Da dicembre dello scorso anno, si è sviluppato un intenso dibattito tra rom, sinti ed associazionismo rispetto al fondamentale tema dell’etnicizzazione e dell’univesalismo, in relazione all’inclusione delle comunità romanì in Italia. RadioCora aveva già pubblicato un articolo a riguardo che fornisce qualche utile coordinata per orientarsi tra le varie posizioni iniziali.

Il confronto è proseguito ed in un post
di Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21luglio, che ha proposto un tema che è fondamentale analizzare per prendere posizione sul dibattito. L’attenzione viene giustamente spostata sui luoghi dell’esclusione, cioè sui campi nomadi. Riporto la parte essenziale del post:«Una cosa deve
essere chiara: in Italia i mega campi monoetnici si superano solo se si avvia un processo di de-etnicizzazione. “De-etnicizzare – lo scrive bene Angela Ti Ci Tullio – significa riconoscere, quando si parla di rom ai margini – e non di tutti gli altri,
ma solo di rom ai margini – che la povertà e i mega campi monoetnici non sono parte della cultura rom. Significa dire che i rom non vivono nell’emarginazione per motivi culturali, significa de-etnicizzare la
povertà di alcuni gruppi rom in emergenza abitativa in Italia”. De-etnicizzare significa dunque riconoscere una verità: alcuni rom vivono nelle baracche, tra il fango o sotto i ponti non perchè la loro cultura glielo impone. Ma perchè poveri e, soprattutto, perchè discriminati».

La discussione è giunta ad uno snodo importante, i campi sono frutto di uno sguardo etnicizzante? Certamente, ma nessuna analisi seria può iniziare se continuiamo a scordare costantemente l’approccio storico alle politiche d’inclusione di rom e sinti in Italia. Vi propongo alcune domande ulteriori
che dobbiamo porci, per non restare in superficie. Queste ulteriori domande hanno a che fare con la storia: chi ha costruito quello sguardo etnicizzante di cui oggi parliamo? Lo hanno costruito rom e sinti o la società maggioritaria? Chi ha costruito i campi nomadi come strumento di rieducazione? Lo hanno fatto rom e sinti o la società di cultura maggioritaria? E chi controllava infine le politiche rieducative indirizzate a rom e sinti che tendevano a renderli esattamente “gli zingari” che “l’uomo bianco” aveva in testa?

Stiamo di nuovo evitando di rispondere a queste domande ed è per questo che ci inganniamo. Se invece forniamo qualche risposta, allora ne ricaviamo dati differenti. Dovremmo distinguere tra due idee di “etnicizzazione” ben differenti tra loro: la prima “etnicizzazione” è quella immobile e fissa operata dalla cultura maggioritaria che ha rinchiuso i rom e sinti in una fotografia statica di gente descritta come priva di cultura e di scarsa intelligenza, quest’immagine etnica di rom e sinti è cresciuta in assenza dei diretti interessati; *poi c’è una seconda idea di “etnicizzazione” di cui dobbiamo
avere il coraggio di parlare ed è quella a cui si riferiscono rom e sinti quando chiedono di essere riconosciuti non come un problema sociale, ma come un gruppo di persone che hanno una propria cultura che da sempre dialoga con il resto del mondo. Questa seconda idea prende corpo dagli stessi rom e sinti e non afferma (non potrebbe mai farlo) un’immagine statica di cultura romanì, perché vive della vita stessa di queste persone ed è quindi in naturale costante cambiamento. È una seconda immagine così importante, perché è necessario rendersi conto che, laddove un popolo non abbia un territorio di riferimento (cioè uno Stato), i propri elementidistintivi si esprimono tutti dentro alla lingua, agli usi ed ai costumi
che certamente variano nel tempo, ma cui non può essere negata possibilità di espressione, a meno di non voler definitivamente dare voce alle sole spinte assimilatrici.

Adesso possiamo tornare ai campi nomadi: quei campi sono nati dall’assenza di riconoscimento e dialogo con la seconda immagine di “etnicizzazione”, bisogna quindi fare attenzione a non ribaltare il senso della storia. *La presenza dei campi nomadi non è colpa della richiesta di riconoscimento di rom e sinti come specificità culturale attuale (una cultura che si portano addosso e che quindi cambia continuamente come tutte le cose vive), ma semmai i campi sono stati il frutto delle politiche della cultura
maggioritaria fatte in assenza di rom e sinti reali, perché nessun rom o sinto oggi come in passato ha mai chiesto che si formassero i campi nomadi.*
Ecco perché non possiamo ribaltare addosso alla loro richiesta di riconoscimento, il peso ulteriore della discriminazione subita, come se l’avessero autogenerata, ed ecco perché non possiamo fare a meno della loro voce, fosse anche parziale (come poi lo sono tutte le voci di qualsiasi gruppo nel mondo), per non rischiare di costruire una nuova immagine artificiale di rom e sinti a nostro uso e consumo.

*I campi infine non sono il frutto della sola povertà, ma sono il risultato di politiche storiche di odio etnico specifico che si chiamano antiziganismo, una pratica, anch’essa storica, capace di creare povertà
assoluta, ma che non ha toccato tutti i baraccati, ma solo rom e sinti, perché solo loro, anche quando già vivevano in casa, sono stati immaginati a prescindere come “gente dei campi”. Non possiamo quindi risolvere la questione dell’antiziganismo dicendo a rom e sinti di smettere di autoaffermarsi.*

Penso infine che l’antiziganismo si possa sconfiggere solo nella collaborazione con i rom e sinti reali di oggi che testimoniano quanto fosse ingannevole quell’immagine di zingaro che ci eravamo autocostruiti.

C’è un ultimo dato che sento la necessità di sottolineare: rom e sinti hanno pagato caro questa volontà di autodeterminarsi, possiamo essere d’accordo o in disaccordo, ma credo che l’ultimo atto doveroso debba essere almeno il rispetto.

*Radiocora.it

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