Sefik e gli altri dimenticati
Carlo Lania*
Sono giorni ormai che Sefik non esce dalla sua roulotte piazzata nel campo «Salviati 2» a Tor Sapienza, periferia orientale di Roma. «Campo tollerato», come lo definì anni fa il piano nomadi di una passata amministrazione capitolina per distinguerlo dai campi regolari. Campo dimenticato oggi, insieme ai suoi abitanti, in prevalenza della comunità Rom come Sefik, sua moglie Fikreta e i loro otto figli.
Come per tutti, da quando è scoppiata l’emergenza coronavirus anche per loro valgono le restrizioni decise dal governo per limitare il rischio di contagio. Non si esce da casa e non si gira per le strade, che per un Rom spesso significa non poter lavorare. Ma a differenza degli altri, nessuno si è preoccupato di pensare interventi a sostegno di quanti vivono nei campi. Tre volte a settimana Sefik vendeva in un mercatino etnico sulla via Ardeatina, uscita 24 del Raccordo anulare, oggetti recuperati pulendo cantine o trovati nei cassonetti. Gran parte del bilancio familiare arrivava da quel piccolo commercio che ora, per forza di cose, non c’è più. Mercato chiuso, guadagni fermi, col risultato che Sefik, Fikreta e i loro figli sono allo stremo. E come loro decine di migliaia di Rom in tutta Italia, al punto che le associazioni che si occupano di Rom e Sinti chiedono alle istituzioni interventi mirati e urgenti, a partire dalla distribuzione di alimenti per chi non ha più neanche da mangiare. «Chi vive nei campi vive alla giornata», spiega Marco Brazzoduro, presidente dell’associazione «Cittadinanza e minoranze». «Sopravvivono con i mercatini, vendendo ferro, di elemosina o con lavoretti saltuari che servono a malapena a procurare cibo a famiglie sempre numerose e spesso con molti bambini».
Una situazione drammatica che Brazzoduro ha descritto in una lettera inviata nei giorni scorsi al premier Conte, al presidente della Regione Lazio Zingaretti, all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) e al Comune di Roma nella quale sottolinea anche i rischi di un possibile contagio nei campi: ««A causa delle condizioni in cui sono costrette a vivere, le famiglie Rom e Sinti sono nell’assoluta impossibilità di tentare qualsiasi forma di prevenzione dal contagio», prosegue Brazzoduro. «Se, come è possibile, il virus entrasse malauguratamente in un campo, il contagio non risparmierebbe pressoché nessuno, con conseguenze imprevedibili anche per le loro precarie condizioni di salute».
«Nei campi manca tutto», conferma Dijana Pavlovic, attivista e mediatrice culturale. «Abbiamo lanciato un appello al governo perché li rifornisca di acqua visto che si chiede di lavarsi spesso le mani, ma senza come si fa? Ma oltre all’acqua c’è urgente bisogno anche di pannolini, farmaci, saponi, mascherine, guanti e soprattutto cibo».
Pavlovic segala anche un’altra emergenza: quella di 15 mila giostrai e circensi Sinti rimasti senza lavoro. «Sono in ginocchio», spiega. «Dopo un inverno in cui non hanno lavorato, adesso avrebbero dovuto ricominciare le loro attività ma non è possibile. Si tratta di famiglie che gestiscono piccoli Luna Park e giostre in maniera del tutto regolare, che pagano bollette e tasse ma che nessuno aiuta». Servirebbe un sostegno economico come è stato previsto per altre categorie di lavoratori, ma pur rientrando tra le competenze del ministero della Cultura, finora i giostrai non sono stati considerati in nessuno dei provvedimenti adottati dal governo.
«Quella di Rom e Sinti è un’emergenza nell’emergenza», conclude Brazzoduro. «Servono interventi immediati almeno per la sanificazione dei campi e perché le famiglie vengano rifornite di materiale sanitario e cibo».
*Dal manifesto del 19 marzo 2020